Vorrei aprire questo breve articolo parafrasando Patrizia Cavalli (anche se sono ancora troppo giovane per capire cosa posso permettermi di parafrasare e cosa no) e ammettendo che i nostri articoli non cambieranno il mondo. Questa ammissione non nasce da un mal celato pessimismo, ma da alcuni fattori assolutamente oggettivi.
In primo luogo, viviamo in un mondo in cui l’importanza della
letteratura è messa in secondo piano. Più di un secolo di discorsi intorno al
progresso ha fatto sì che il suo valore conoscitivo venisse sempre più
sottovalutato, fino quasi a scomparire. Ovviamente non sto dicendo che ciò che
si ottiene dalla letteratura dovrebbe essere ritenuto superiore a ciò che si
ricava col metodo scientifico, anche perché le conoscenze che si ottengono dai
due non vogliono e non devono essere le stesse. Cerco solo di evidenziare il fatto
che la letteratura è sempre più spesso vista come uno strumento di svago o di
informazione piuttosto che come oggetto del sapere. Certo, magari è ritenuta
(erroneamente) uno svago culturalmente più elevato rispetto al guardare un film
o una partita di calcio, ma la sua importanza viene rilegata sempre con più
leggerezza a funzioni che in passato le erano secondarie, come l’evadere dalla
realtà o il pavoneggiare la propria cultura. In questo modo però la letteratura
perde il suo originario valore, e diventa inutile. Non a caso il nostro blog si
chiama La festa dell’insignificanza.
In secondo luogo, i nostri articoli non cambieranno il mondo
per come vengono proposte le riflessioni in sé. I nostri pochi (cari) lettori
si ritrovano davanti ad analisi che possono sembrare poco approfondite e troppo
personali. Ma è tutto ragionato: la brevità nasce dalla consapevolezza che chi
non è interessato all’argomento non andrà mai oltre la terza pagina
dell’articolo e dalla fiducia che invece gli appassionati approfondiranno da
soli il poco che diciamo. La soggettività degli articoli invece non è un
problema: non c’è nessuna accademia che ci legga o che ci finanzi, per questo
motivo scriviamo oggettivamente di ciò che soggettivamente ci attrae.
Per esempio, l’idea di questo articolo è nata dalla mia
sorpresa di fronte a un incipit a dir poco straniante. Parlerò quindi del
racconto I leoni meccanici, che si trova nella raccolta Una tomba per
Boris Davidovič,[1]
del serbo Danilo Kiš (1935 - 1989).
Si tratta di una raccolta atipica, i cui racconti sono legati
da un unico filo conduttore: i loro protagonisti sono sempre uomini (innocenti)
che di punto in bianco la complessa macchina politica dell'URSS destina prima a
una forzata ammissione di colpa, poi al carcere e infine alla morte. Ma non si
tratta di un semplice libro a sfondo storico e politico: Kiš apprifitta della
somiglianza degli episodi per sviscerare di volta in volta i temi che ha più a
cuore. Non è infatti casuale il sottotitolo della raccolta: i "Sette
capitoli di una stessa storia" non sono infatti altro che sette occasioni
per affrontare i temi della nostra esistenza, dell'arte e della storia restando
sempre ancorati allo stesso soggetto.
Ho usato il termine straniante non a caso: l’apertura del
racconto mette il lettore in una posizione diversa dal solito e lo costringe a
riflettere su ciò che legge, come se per la prima volta osservasse qualcosa di
assolutamente comune sotto una luce nuova. Infatti, di norma un racconto viene
presentato come la narrazione veritiera di un fatto presentato in prima o in
terza persona, e solitamente il lettore accetta per vero quello che gli viene
raccontato, come per rispetto di un implicito patto di finzione che sta alla
base della lettura di un testo letterario. In questo caso, invece, ci si
ritrova di fronte a qualcosa di diverso: nel primo capitolo l’autore dichiara apertamente
che l’unico personaggio storico della vicenda è già sufficientemente noto
grazie alla storiografia, e perciò non gli verrà assegnato molto spazio nella
trama:
L’unico
personaggio storico di questa vicenda, Édouard Herriot, [..] qui forse non avrà
un ruolo di grande rilievo. Non perché, diciamolo subito, sia meno importante,
per la nostra storia, di un altro soggetto – di fantasia, ma non per questo
meno realistico – che qui compare, bensì perché semplicemente sui personaggi storici
ci sono anche altri documenti. Non dimentichiamolo: Édouard Herriot fu inoltre
scrittore e memorialista, un uomo politico di grande levatura, e la sua
biografia si può trovare in ogni enciclopedia che si rispetti.[2]
Si tratta di una dichiarazione per niente banale: Danilo Kiš dichiara apertamente il ruolo secondario che la realtà gioca
nella letteratura e, in maniera del tutto innocente, mostra ai lettori i
meccanismi che stanno alla base di quel patto di finzione che di solito rimane
sottinteso e giustamente dimenticato. In questo modo, se sul primo personaggio
non si dilunga troppo e ritiene sufficiente la sua descrizione tratta da una
fonte ufficiale[3], sul
personaggio fittizio si concentra più a lungo e sente la necessità di descriverlo
come se il mondo lo conoscesse per la prima volta. E in effetti è così: Kiš esordisce dichiarando che si sa veramente poco di Čeljustnikov (è questo il suo nome), e poco alla volta la sua
descrizione si fa non solo più dettagliata, ma anche sempre più giustificata.
Vengono infatti citate le fonti (ovviamente fittizie) che permettono la
ricostruzione del carattere del personaggio e degli eventi che lo riguardano:
Altre
testimonianze su di lui sono assai contraddittorie e, perciò, forse poco
significative. Le riporto comunque, benché alcune fonti suscitino legittimi
dubbi […].[4]
O
ancora a venire utilizzate sono le stesse testimonianze scritte (in questo caso
i rapporti ufficiali consegnati agli organi del partito) di Čeljustnikov:
Di ciò che poi accadde quel giorno nella cattedrale di Santa Sofia, rende testimonianza lo stesso Čeljustnikov.[5]
Citiamo ancora dalla testimonianza di Čeljustnikov[6]
Il patto di finzione prevede che il narratore sia sufficientemente credibile, e uno dei metodi migliori per rendere un personaggio verosimile è senza dubbio quello di citare i documenti che ne parlano, suggerendo al lettore di credere all’autenticità di ciò che legge. Qui però il personaggio a cui fanno riferimento i documenti è dichiaratamente frutto della fantasia dell’autore, va da sé che anch’essi devono essere fittizi. Ma senza la premessa citata in precedenza noi lettori non potremmo saperlo, e il racconto filerebbe liscio. Va ammesso, per onestà, che il suo inserimento è del tutto casuale e non previsto nella prima stesura del racconto. Ce lo spiega lo stesso Kiš:[7]
[…] colgo l'opportunità per raccontare loro il mio libro
mentre ai bambini vengono raccontate storie, in modo che si addormentino e in
modo che non ci portino a un esaurimento nervoso con le loro chiacchiere e
domande. «la storia parla di un francese, Erio, Eduardo Erio […] hai sentito parlare
di Eduardo Erio?» La signora scuote la testa, il signore cerca di ricordare se
ha sentito ed ecco, all'improvviso, come se ricordasse qualcosa, prende il
giornale (le Monde) e me lo porge trionfante. […] Guardo il testo, poi
continuo a leggere: «In uno dei suoi libri, Letters to the Unbeliever, [Madre
Marie-Yvonne] esprime la sua piena devozione a tutti coloro che cercano Dio e
inconsapevolmente, tra cui il presidente più famoso, Eduard Erio. In precedenza,
aveva pubblicato la sua corrispondenza con Erio, intitolata Eduard Erio and
God (Casterman, 1965). Eccetera. Eccetera.»
La data è ieri, 17
luglio 1976.
In questo modo Kiš scopre di aver inventato un
personaggio reale. La concidenza lo colpisce a tal punto che decide di
modificare la parte introduttiva del suo racconto. Questa variazione non ha
però comportato alcun cambiamento significativo del resto del testo, anzi ha
spinto l’autore a inserire nel racconto gli spunti per una riflessione brillante
sulla dialettica tra finzione e realtà. Per questo, non contento di quello che
già aveva svelato, aggiunge tra parentesi:
(Le
conseguenze del secondo viaggio di Herriot in Russia hanno una rilevanza
storica e come tali esulano dall’interesse del nostro racconto)[8]
Si tratta di un’altra frase estremamente straniante e dell’ennesima ammissione di finzione all’interno dello stesso testo: l’interesse di Kiš non è rivolto verso gli episodi che hanno una rilevanza storica perché Kiš non è uno storico ed è perfettamente consapevole che la letteratura si nutre principalmente di fantasia. E se la storia rimane comunque a pieno diritto nel racconto, facendone da cornice contestuale indispensabile, è la finzione che invece deve muovere l’azione fondamentale intorno alla quale è costruita la trama.
Ovviamente Kiš non è stato il primo a fare un
ragionamento del genere (e non lo sono stati nemmeno i nostri cari sudamericani
amanti delle finzioni). Il discorso sull’importanza dell’immaginazione come
base della letteratura è molto più antico e ci riporta alle basi della cultura
occidentale, più precisamente ad Aristotele (384 – 322 a.C.).
Nella sua Poetica viene espressa molto chiaramente una
distinzione tra poesia (oggi noi potremmo tranquillamente dire letteratura) e
storiografia:
Lo
storico e il poeta non differiscono tra loro per il fatto di esprimersi in
versi o in prosa […] ma differiscono in quanto l’uno dice le cose accadute e
l’altro quelle che potrebbero accadere.[9]
Secondo
Aristotele quindi la storia si occupa del particolare e studia fatti specifici,
realmente accaduti e ormai immutabili. La letteratura si occupa invece del
generale e il suo compito è di immaginare ciò che potrebbe accadere secondo
regole di verosimiglianza e di necessità. Per questo motivo il metodo dello
storico procede da qualcosa di concreto fino ad arrivare a studiare i fatti che
lo riguardano[10], mentre
il metodo del poeta parte dall’invenzione di azioni verosimili e alla loro
organizzazione per arrivare a poter raccontare non ciò che è avvenuto ma ciò
che potrebbe avvenire. Chiaramente sarebbe da ingenui credere che uno scrittore
possa lasciare fuori dalla sua opera i grandi avvenimenti della storia e
Aristotele non manca di riconoscerlo:
Se
[al poeta] capita di rappresentare fatti avvenuti, è ugualmente poeta: niente
impedisce infatti che tra i fatti avvenuti ce ne siano alcuni che è verosimile
avvengano, e secondo una tale verosimiglianza ne è lui il creatore.[11]
Il
compito della letteratura sarebbe quindi quello di rappresentare qualcosa di
fittizio in un contesto che fittizio non è, e il suo valore nasce proprio da
questa finzione. Infatti, sempre secondo Aristotele l’uomo per natura ricava
dall’imitazione lo stesso piacere che ricava nell’apprendimento. Se aggiungiamo
poi che la finzione si ottiene attraverso la fantasia arriviamo finalmente a
capire la sua importanza: la fantasia (ovvero quella che Aristotele nel De
anima chiama funzione immaginativa dell’anima) è il fondamentale
strumento conoscitivo dell’uomo poiché regola la capacità di raffigurarsi gli
oggetti desiderati anche in mancanza di essi, e senza le immagini non potrebbe
esistere il pensiero.
Il poeta realizza la propria imitazione attraverso la propria fantasia (la funzione immaginativa dell’anima), e cioè rappresentandosi i fatti anche in assenza di essi e riuscendo a metterli in relazione analogica tra loro. Il lettore compie un’azione simile, ma inversa: leggendo si raffigura una serie di immagini che vanno a confluire nella sua memoria. Attraverso la memoria queste immagini diventano raffrontabili e universali, e attraverso la creazione dei rapporti che intercorrono tra esse la conoscenza si compie.[12]
D.K.
Sono convinto che uno scrittore non abbia il diritto di dare libero corso alla
sua immaginazione. In ogni caso, io non credo nell’immaginazione dello
scrittore.
Questo
rifiuto nasce da circostanze storiche precise: secondo Kis la letteratura del
XX secolo ha bisogno di compiere un cambiamento dettato dall’eredità che il
secolo stesso (con la sua storia e le sue atrocità) le ha lascito e di
abbandonare definitivamente ogni sua reminiscenza romantica. Di conseguenza
deve essere anche messa da parte quell’immaginazione che era la forza motrice del
romanticismo. Per i romantici, infatti, l’immaginazione era un potere originale
e creativo che permetteva di creare la realtà attraverso il genio del poeta. Oggi però la figura di un poeta vate (o profeta)
che con le sue parole plasma la realtà non è più possibile poiché:[15]
La
storia moderna ha plasmato aspetti così autentici della realtà che allo
scrittore odierno non rimane altro se non dare loro una forma artistica o, se
serve, «immaginarli», ossia usare i dati autentici come materiale grezzo e dare
loro una nuova forma tramite l’immaginazione.
Si
potrebbe quindi dire che Kiš rifiuta solamente un tipo ben preciso di
immaginazione, ma che riconosce comunque a pieno titolo l’importanza della
finzione narrativa come mezzo per identificare nuovamente la realtà storica, e
perciò, dopo un effetto iniziale di straniamento, vederla sotto luce nuova.
Bisogna
però precisare che una visione del genere di letteratura non presuppone necessariamente
un intellettuale engagé,[16]
anzi, Kiš ne prende le distanze specificando come una letteratura che utilizza
la storia in questo modo non debba essere per forza di stampo ideologico:[17]
Il
grande sbaglio, tipico del XX secolo, sta nel mescolare letteratura e politica.
A noi scrittori questo legame è stato semplicemente imposto. Persino quando scrivo
un libro come Una tomba per Boris Davidovič cerco di tirare fuori il
meglio: la poesia applicata a un soggetto politico, non la politica in sé e per
sé. Naturalmente non è che in questo modo io intenda tradire la verità, al
contrario: testimonio la verità che ho cercato e trovato nei documenti. Quando Una
tomba per Boris Davidovič, è stato pubblicato, tutti hanno scritto che si
trattava di un libro prettamente politico. Io invece affermo che non è un libro
politico. Avevo l’intenzione […] di scrivere qualcosa di poetico, un’opera letteraria
che trattasse di questi avvenimenti politici ben noti.
In questo modo profila un’idea di letteratura che cerca di renderci consapevoli delle grandi tematiche della nostra esistenza (in questa intervista fa l’esempio dell’amore e della morte) a partire da una realtà storica autentica, ma falsata.
Vorrei
chiudere con un veloce parallelismo. Anche in Italia ci sono stati scrittori
che potremmo dire che in parte la pensavano come Kiš. Uno di questi è senz’altro
Cesare Pavese (1908 - 1950).
Pavese
è vissuto e ha scritto in un’epoca in cui tendenzialmente gli scrittori in Italia
erano tutti neorealisti. E dopo una prima lettura sembrerebbe neorealista anche
Pavese. Ma la realtà storica in Pavese gioca un ruolo particolare, potremmo dire
di contorno rispetto alla narrazione vera e propria. Certamente nei suoi libri le
Langhe conoscono la Resistenza e il fascismo, ma i personaggi principali
vivono in una dimensione che sembra separata dal resto del mondo, e la storia
fa solamente da cornice alle trame dei romanzi. Non a caso Pavese non è
interessato alla dimensione storica del nostro mondo ma alla sua dimensione
mitica, ed è proprio attraverso il mito che viene analizzata la realtà e che vengono
studiate le tematiche esistenziali che da sempre interessano l’uomo. E, consapevole
del ruolo principe che ha l’immaginazione per fare ciò, sente l’esigenza di
inserire nel suo diario, in data 10 luglio 1942, la seguente nota:[18]
«…l’ordre, la composition de quelque nature qu’ils
soient, sont un calcul de proportions, de correspondances. La fantaisie, au
contrarie, se libère de tout calcul, te tout loi, même discrète ou cachée, ou
feint de s’en libérer. C’est pour cela que la composition n’a aucune importance
dans les romans de Giradoux…» (p. 154 – D. Mornet, Introduction à l’études
des écrivains français d’aujourd’hui).
Veramente
io dicevo il contrario (prefazione a D. Copperfield: «la fantasia, che è
costruzione pura»). Questo Mornet distingue e classifica, da pedante francese.
La fantasia non è l’opposto dell’intelligenza. La fantasia è intelligenza
applicata a stabilire rapporti di analogia, di implicanza significativa, di
simbolismo. Dicevo che essa sola costruisce, perché essa sola sfugge alla
tirannia del reale-tranche de vie, dell’evento naturalistico, e
sostituisce alla legge del reale (che è assenza di costruzione, tanto è vero
che esso non ha fine né principio) la favola, il racconto, il mito, costruzione
dell’intelligenza.
Il
Mornet chiama fantasia la fantasticheria, che - tranne nei casi patologici – è
del resto anch’essa sempre un’istintiva ricerca di costruzione intellettuale.
(le conseguenze della mancanza di fantasia in alcuni autori
del secolo passato e della nostra contemporaneità ha una rilevanza storica e
come tali esulano dall’interesse del nostro
racconto)
[1] Danilo
Kiš,
Una tomba per Boris Davidovič, Adelphi, Milano, 2005
[2] Danilo
Kiš,
Una tomba per Boris Davidovič, Milano, Adelphi, 2005, p. 38
[3] E la
fonte è citata proprio come si cita una fonte: a piè di pagina e con l’autore, la
data e il resto (nel nostro caso: André Ballit, «Le Monde», 28 marzo 1957)
[4] Danilo
Kiš,
Una tomba per Boris Davidovič, Milano, Adelphi, 2005, p. 40
[5] Ivi p.51
[6] Ivi p.52
[7] http://www.kis.org.rs/web/bzivot/a/A/R/index.htm
(ultima vista in data 05/21/2020)
[8] Danilo
Kiš,
Una tomba per Boris Davidovič, Milano, Adelphi, 2005, p. 61
[9]
Aristotele, Poetica, Laterza editori, Roma, 1998, pp. 20-21
[10]
Ovviamente la ricerca storica è cambiata molto nel corso dei due millenni che
ci separano da Aristotele. Tuttavia, possiamo ancora dire che le sue idee di base sono ancora valide: lo storico si informa su ciò che è vero partendo da
uno spunto concreto. Spero che qualsiasi storico che leggerà queste poche righe
mi possa confermare che nel suo lavoro si analizza, si suppone, si deduce, ma
che non si inventa niente.
[11]
Aristotele, Poetica, Roma,Laterza editori, 1998, p.20
[12] Chi
volesse approfondire consulti qui gli Analitici secondi di Aristotele
[13] Non
credo nell’immaginazione dello scrittore. Intervista con Adalbert Reif,
“Universitas”, agosto 1989, in Danilo Kis, Homo Poeticus, Adelphi,
Milano, 2009, pp.287-298
[14] ibidem
[15] ibidem
[16] Scusate
la parola francese, ma in questo caso ha un significato storicamente più
preciso dell’italiano “intellettuale”
[17] Non
credo nell’immaginazione dello scrittore. Intervista con Adalbert Reif,
“Universitas”, agosto 1989, in Danilo Kis, Homo Poeticus, Adelphi,
Milano, 2009, p.291
[18] Cesare
Pavese, Il mestiere di vivere. Diario 1935 – 1950, Torino,Einaudi, 2020,
p.241
- Le immagini nell'ordine:
1) Paesaggio con Gulag
2) Danilo Kiš con valigia
3)Salvador Dalì, Sogno causato dal volo di un'ape intorno a una melagrana un attimo prima del risveglio, 1944, Museo Thyssen-Bornemisza, Madrid
4)Christo e Jeanne-Claude, Running Fence, Sonoma e Marin Counties, California, 1972-76
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