L’ingenuo appassionato che provasse per la prima volta a leggere un testo difficile come La cognizione del dolore dell’ingegner Carlo Emilio Gadda potrebbe forse rimanere disorientato di fronte a frasi di questo tipo:
I riflessi del peone potevano facilmente presagirsi: anzitutto una mimica gesticolare e facciale a carattere nettamente ebefrènico, accompagnata dai borborigmi di un ventriloquio paleo-celtico, con susseguenze di boati gutturali a tipo belluino: poi, sul fiotto-pilota della cataratta celtica, adeguatamente esagitata dalle pale agitatrici d’una specie di sindrome di Parkinson, ecco si sarebbe diversata nel buio della stanza la non meno orripilante richiesta di una corresponsione di salario.[1]
Cosa sta accadendo in questa tragicomica scena del romanzo? Josè, il giardiniere, sta ponendo a Gonzalo, il proprio datore di lavoro, una più che giusta richiesta di stipendio. Gonzalo, alter-ego dell’autore, è in parte disgustato in parte spaventato sia dalla figura sia dalla richiesta di Josè. Il passo, così parafrasato, è certamente molto più comprensibile, ma se la frase fosse stata formulata in questo modo la Cognizione sarebbe un libro qualunque, Gadda sarebbe uno scrittore qualunque. Il nostro articolo invece parla di scrittori complessi, tentando di indagare i motivi della loro complessità. E il primo scrittore della lista è proprio Gadda.
Il barocco e il grottesco
albergano già nelle cose, nelle singole trovate di una fenomenologia a noi
esterna: nelle stesse espressioni del costume, nella nozione accettata
«comunemente» dai pochi o dai molti: e nelle lettere, umane o disumane che
siano: grottesco e barocco non ascrivibili a una premeditata volontà o tendenza
espressiva dell’autore, ma legati alla natura e alla storia […] talché il
grido-parola d’ordine «barocco è il G.!» potrebbe commutarsi nel più
ragionevole e più pacato asserto «barocco è il mondo, e il G. ne ha percepito e
ritratto la baroccaggine»[2]
L’autore qui ci sorprende, si dimostra stupito e quasi offeso dalle definizioni che per lui vengono ideate, Gadda non si sente affatto uno scrittore complesso, grottesco e barocco ma, paradossalmente, uno scrittore realista, che fotografa perfettamente il mondo che lo circonda, ed è proprio il mondo, come il povero Josè, a dimostrarsi deforme e mostruoso.
Giancarlo Roscioni, importante critico e caro amico di Gadda, nel suo saggio La disarmonia Prestabilita, ci fornisce una giustificazione simile ma in parte diversa per lo stile unico del nostro autore: secondo lo studioso, Gadda, nello scrivere, non mira affatto a essere oscuro, anzi, il suo intento è quello di essere il più chiaro e preciso possibile. Proprio per questo ogni cosa è spiegata nei minimi dettagli, è inserita con forza nella realtà di cui fa parte (il modo di esprimersi del peone Josè non è semplicemente sgraziato ma presenta una serie di caratteristiche che vanno spiegate attraverso l’uso di tecnicismi presi dal campo della medicina, della linguistica, della psichiatria), da questo inserimento nasce una “deformazione” della realtà: «Il momento della deformazione […] è infatti quello in cui meglio traspare, dietro la superficie delle cose, la trama che le unisce le une alle altre conferendo a ciascuna la sua provvisoria apparenza.»[3]. L’autore conosce e fa conoscere puntualizzando, specificando e precisando all’inverosimile, tentando di dare vita a quello che Roscioni definisce un «groviglio conoscitivo»[4]: una complessa trama in cui ogni cosa è legata a tutte le altre. Gadda dunque, ingegnere di professione, cura con maniacale precisione anche la costruzione architettonica dei propri scritti.
Un altro scrittore che, per la sua oggettiva difficoltà mette in crisi i suoi lettori ormai da parecchi decenni è Giorgio Manganelli, autore di frasi di questo tipo:
Se
ogni discorso muove da un presupposto, un postulato indimostrabile e
indimostrando, in quello chiuso come embrione in tuorlo e tuorlo in ovo, sia,
di quel che ora si inaugura, prenatale assioma il seguente: CHE L’UOMO HA
NATURA DISCENDITIVA. Intendo e chioso: l’omo è agito da forza non umana, da
voglia, o amore, o occulta intenzione, che si inlàtebra in muscolo e nerbo, che
egli non sceglie, né intende; che egli disama e disvuole, che gli instà, lo
adopera, invade e governa; la quale abbia nome potestà o volontà discenditiva.[5]
Manganelli non è un autore per pochi, è un autore per pochissimi: orgogliosamente complesso, incline al manierismo, amante dei termini arcaici, abilissimo nel gioco delle figure retoriche. Oltre a ciò, gli indefinibili libri di Manganelli danno sempre l’impressione di prendersi gioco del lettore: le poche righe qui citate sono quelle che aprono Hilarotragoedia, un trattato teologico in cui sono illustrati minuziosamente i vari modi attraverso cui è possibile discendere agli inferi. Un altro breve libro redatto da Manganelli, il Discorso sopra la difficoltà di comunicare coi morti, ha un titolo che si commenta da sé. Manganelli, in sostanza, è un autore estremo che utilizza una lingua morta e dei generi letterari desueti (il trattato teologico è certamente il suo preferito) per parlarci di argomenti superflui e impossibili. Che scopo hanno dunque i libri di questo bizzarro scrittore?
Perché
io scrivo? Confesso di non saperlo, di non averne la minima idea e anche la
domanda è insieme buffa e sconvolgente. Come domanda buffa avrà certamente
delle risposte buffe: ad esempio che scrivo perché non so fare altro; o perché
sono troppo disonesto per mettermi a lavorare […] Probabilmente scrivere è il
modo di frodare che tiene chi è nato ladruncolo o truffatore, ma non ha
abbastanza coraggio per delinquere su grande scala. Se fossi onesto
fabbricherei monete false – deve essere un lavoro da grande artista – o
ricatterei facoltose coppie con figli scapestrati, o semplicemente aspetterei
di notte il rientro di gentiluomini affezionati alla vita: «O la borsa o la
vita», vecchia e nobile sentenza […][6]
Manganelli è, tra tutti, l’autore più lontano possibile dal canone manzoniano di «vero per soggetto», per lui la letteratura è inganno, truffa, menzogna. Ma se la letteratura è una menzogna cos’altro è Manganelli se non un abilissimo, ironico, geniale delinquente?
Il nostro terzo e ultimo “scrittore difficile” altri non è che il maggior scrittore italiano contemporaneo: Michele Mari. Mari scrive per parlarci di se stesso, dei propri «demoni», ma lo fa ricorrendo all’influenza costante degli autori che ama di più. In tutte le sue opere Mari rende omaggio, a volte attraverso la citazione, spesso attraverso la parodia, ai suoi modelli, sfida il lettore a riconoscerli, a divertirsi insieme a lui. è così che ogni libro di Mari può essere ricondotto a un modello ben preciso: La stiva e l’abisso mette in parodia i temi tipici del romanzo d’avventura, Rondini sul filo imita l’inimitabile scrittura di Céline, Io venia pien d’angoscia a rimirarti si presenta come un falso diario scritto da Orazio Carlo Leopardi fratello minore del grande poeta. Mari, nelle sue opere, dimostra di conoscere la storia della letteratura in modo eccezionale, di avere decine e decine di modelli e autori preferiti, tra gli altri ovviamente (e forse più di tutti gli altri) Carlo Emilio Gadda e Giorgio Manganelli, i nostri due scrittori complessi.
Ritornando dunque alla questione principale: per quale motivo questi autori scrivono in modo così complesso? Lo scrittore-ingegnere Gadda è complesso per essere semplice, lo scrittore-delinquente Manganelli ci sottopone le sue truffe verbali, lo scrittore-lettore Mari vuole rendere omaggio ai propri modelli. Qualunque sia il motivo, la letteratura difficile, per quanto snervante e faticosa, ha un grande vantaggio per il lettore, è un inestimabile dono. Ce lo spiega la scrittrice inglese Zadie Smith, nella sua introduzione a Brevi interviste con uomini schifosi, raccolta di racconti di un altro grandissimo scrittore complesso: David Foster Wallace.
In
una cultura che priva quotidianamente della capacità di usare l’immaginazione,
il linguaggio e il pensiero autonomo, una complessità come quella di Dave è un
dono. Le sue frasi ricorrenti, meandriche, richiedono una seconda lettura. […]
Ogni parola che cerchiamo sul dizionario, ogni tortuosa nota che seguiamo a piè
di pagina, ogni concetto che mette a dura prova cuore e cervello: tutto contribuisce
a spezzare il ritmo dell’assenza di pensiero – e ci vediamo restituire i nostri
doni.[7]
Smith
vuole qui parlarci di Wallace, del suo caro amico “Dave”, ma la sua
introduzione potrebbe trovarsi prima di un libro di Gadda, di Manganelli, di
Mari, dei moltissimi altri autori che ci lasciano doni difficili da scartare.
Nico
[1] C.E. Gadda, La cognizione del dolore, Milano, Adelphi, 2017, p.164.
[2] Ivi, pp. 222-223.
[3] G. Roscioni, La disarmonia
prestabilita. Studio su Gadda, Torino, Einaudi, 1974, pp. 12-13.
[4] Ivi, p.74.
[5] G. Manganelli, Hilarotragoedia,
Milano, Adelphi, 1987, p. 9.
[6] G. Manganelli, Il rumore sottile
della prosa, Milano, Adelphi, 1994, p.21.
[7] Z. Smith, introduzione a Brevi
interviste con uomini schifosi, Torino, Einaudi, 2016, pp. V-VI.
sono innamorato di Gadda e di Manganelli, accetto la sfida di Manganelli leggendo IL NUOVO COMMENTO. è stimolante e direi strabiliante, basta che non mi chiediate di riassumerne i contenuti
RispondiEliminaGadda è più fruibile, IL PASTICCIACCIO, IL CASTELLO DI UDINE, ma attenzione per la COGNIZIONE. COMUNQUE STIMOLANTE
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