Siete mai stati a Toledo? Toledo è una bellissima cittadina della Spagna, inserita nel 1986 tra i beni artistici patrimonio dell’UNESCO. Con i suoi ottantacinquemila abitanti, non è di certo tra le città più grandi e popolose della nazione, ma è probabilmente quella che può vantare la storia più importante. Toledo è stata la capitale dell’impero spagnolo durante la dominazione di Carlo V, forse il periodo di maggior splendore della Spagna, a Toledo ha lavorato per metà della sua vita il manierista El Greco, pittore di quadri enigmatici e disturbanti, sempre a Toledo si conclude la vicenda raccontata nel Cantar de mio Cid, il grande poema epico spagnolo.
Prendendo in mano Il
porto di Toledo di Anna Maria Ortese, potremmo anche aggiungere che Toledo,
potendo vantare un porto, sarà certamente bagnata dal mare. Ma la carta
geografica smentisce subito la nostra ipotesi: un toledano che si svegliasse
una mattina con l’irrefrenabile desiderio di fare un bagno in mare, dovrà
guidare verso est per almeno cinque ore prima di poterlo soddisfare. Va da sé quindi
che l’ultima cosa di cui ha bisogno una città a quasi cinquecento metri di
altitudine e nel bel mezzo della spagna è proprio un porto. Il porto di Toledo,
come tutti gli altri libri di Anna Maria Ortese, si qualifica subito come un romanzo
fantastico.
Ma cosa significa scrivere
un romanzo fantastico nell’Italia degli anni Settanta? «Quando scrissi questo
libro, a Milano, […] la città era già immersa nell’aria innaturale e infiammata
della contestazione. […] Il rumore, la violenza eterna della grande città,
dalla quale non potevo mai fuggire, si accrescevano di questo riverbero “politico”.»[1].
Gli anni Settanta sono quelli in cui la tensione politica raggiunge il proprio culmine,
sono gli anni delle azioni terroristiche delle Brigate Rosse, delle insensate stragi
di innocenti messe in atto da organizzazioni fasciste. Negli anni Settanta anche
lo scrittore deve farsi politico, le sue opere devono rispecchiare la realtà, il
suo compito è quello di descrivere in modo realistico la società per scoprirne
i problemi, metterne in luce le diseguaglianze. Lo scrittore deve coinvolgere
la popolazione, farla riflettere sulle maggiori questioni politiche del proprio
tempo. Quest’obbligo morale dell’impegno coinvolge praticamente tutti i
maggiori autori del tempo, da Elsa Morante con il suo romanzo La storia,
a Pierpaolo Pasolini che, allo scopo di far riflettere, sperimenta in tutti i
campi dell’arte, dalla poesia al romanzo, dal teatro al cinema. Negli anni
Settanta dunque, lo spazio riservato al fantastico è piuttosto scarso e i suoi
maggiori esponenti (pensiamo, oltre alla stessa Ortese, a Tommaso Landolfi o
Dino Buzzati) sono degli estrosi, dei “marginali” della cultura.
In un periodo simile dunque
Anna Maria Ortese ci offre Il porto di Toledo, un lungo romanzo che si
svolge in un luogo immaginario, in un tempo non precisato, scritto in un
italiano oscuro, difficile anche per i lettori più allenati, ricco di termini
inglesi, spagnoli o totalmente inventati, in cui la narrazione può in qualsiasi
momento interrompersi per lasciare spazio a poesie o lunghi e surreali racconti.
Un libro del genere sarà ovviamente un insuccesso clamoroso: nel 1975, data
della sua prima pubblicazione, venderà forse un migliaio di copie. E non andrà
meglio nel 1983, in occasione della seconda pubblicazione.
Ma che cosa ci racconta
Ortese nel suo più complesso romanzo? Ci racconta la storia di Damasa, adolescente
che vive nei pressi del porto di Toledo, città a picco sul mare abitata da
marinai e pescatori. Damasa passa le sue giornate fantasticando, studiando da
autodidatta, scrivendo i surreali racconti e le poesie che interrompono così
spesso la narrazione, passeggiando in riva al mare o tra i palazzi della città
perennemente spazzati dal vento. L’autrice, attraverso la voce della giovane
protagonista ci fa conoscere, oltre ai paesaggi e alle vie di una Toledo
impossibile e visionaria, tutta una folla di stupendi personaggi, i genitori adottivi
di Damasa, una numerosa e allegra tribù di fratelli e fratellastri, il saggio
conte D’Orgaz, «maestro d’armi» di Damasa e soprattutto il misterioso Lemano,
marinaio finlandese con cui la ragazza intratterrà una bizzarra e discontinua
storia d’amore. La vita di Damasa e dei suoi cari verrà però sconvolta da un’enorme
tigre, un mostro così grande da coprire l’azzurro del cielo: la guerra. Voluta
dal violento e prepotente vicerè Don Pedro e non impedita da un re debole e
vigliacco.
Leggendo queste righe si
rimane disorientati. Non si può chiaramente parlare di una vera e propria
trama, sembra piuttosto che ogni cosa sia simbolo per indicare qualcos’altro, sia
allegoria di un significato nascosto che, conosciuto, ci potrebbe spiegare l’intero
libro. La chiave di lettura di questo complesso romanzo altro non è che la vita
della nostra scrittrice: leggendo una biografia qualsiasi di Anna Maria Ortese
(la migliore è senza dubbio Apparizione e visione[2],
di Luca Clerici) e confrontandola con il romanzo iniziamo a riconoscerne i luoghi:
La marina e ventosa città di Toledo altro non è che l’amata Napoli, la città
dell’infanzia, che qui prende il nome della sua via principale, via Toledo,
quella che, secondo Stendhal, era «la via più popolosa del mondo» (facendoci
una passeggiata è davvero difficile dargli torto…). E anche i misteriosi e
simbolici personaggi del romanzo iniziano ad avere un volto ben definito: il maestro
d’armi D’Orgaz è lo scrittore Massimo Bontempelli, il primo a credere nelle
capacità della giovane Ortese, tanto da favorire la pubblicazione dei suoi racconti,
il finlandese Lemano è Marcello Venturi, primo e mai dimenticato amore della
scrittrice. Ogni cosa ritrova la sua collocazione naturale (perfino l’inetto
sovrano e l’arrogante Don Pedro che, smascherati, rivelano i volti di Vittorio
Emanuele III e Benito Mussolini, colpevoli di aver condotto l’Italia in una
guerra disastrosa.) e il romanzo più complesso di Ortese si rivela il più
semplice di tutti, una biografia della scrittrice rivestita di elementi fantastici
e allegorici. Nell’epoca del realismo e dell’impegno politico Anna Maria Ortese
fugge dalla realtà del suo tempo e rivendica il proprio diritto alla fantasia. «[…]
Toledo non è, non vuole essere una storia vera, ma un’”aggiunta” alle cose del
mondo. Toledo non è una vera città, anche se immagini del vero ne emergono, né è
reale la sua gente.»[3]
[1] A.M. Ortese, Il porto di Toledo,
Milano, Adelphi, 1998, p. 551.
[2] L. Clerici, Apparizione e
visione: vita e opere di Anna Maria Ortese, Milano, Mondadori, 2002.
[3] Ortese, Il porto di Toledo,
cit., p. 15.
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