Nel 1516 esce la prima edizione a stampa dell’Orlando Furioso. Si tratta di un’edizione molto diversa da quella che leggiamo oggi: la lingua, nonostante si basi sul toscano letterario, contiene molte sfumature padane; la trama contiene diverse incongruenze che i primi lettori metteranno presto in luce; i canti sono solamente 40, contro i 46 della versione definitiva. Negli anni successivi Ariosto continua a lavorare sul testo del Furioso modificandone notevolmente lingua e contenuto; non a caso il frontespizio dell’edizione a stampa del 1532 dichiarerà che il poema è stato nuovamente da lui proprio corretto e d’altri canti nuovi ampliato.[1] Non approfondiremo il perché di questi cambiamenti, quello che ci interessa osservare è che Ariosto cambiava continuamente idea riguardo ciò che aveva scritto e sentiva la necessità di aggiornare il proprio lavoro; i suoi lettori poi, non solo accoglievano positivamente ogni modifica, ma dimenticavano velocemente le versioni più datate.
Uno dei più
interessanti manoscritti trecenteschi di cui siamo in possesso è il cosiddetto Codice
degli abbozzi di Petrarca.[2]
Si tratta di un manoscritto composto di venti carte conservato a Roma, nella
Biblioteca Apostolica Vaticana. Su queste carte Petrarca ha vergato delle bozze
di alcune poesie poi inserite nel Canzoniere. Per questo motivo Contini,
che ama i termini semplici, definisce il manoscritto uno scartafaccio,
cioè un quaderno per minute o, con semplici parole, un plico di fogli per la
brutta copia. Oggi, leggendo questi fogli, è possibile studiare come Petrarca
lavorava sui propri testi seguendo la sua stessa mano. Si tratta di una delle testimonianze
più intime lasciateci da uno dei padri della nostra letteratura.
Anche Carlo
Emilio Gadda tornava spesso su quello che scriveva. Studiando i suoi quaderni si
può osservare un lavoro maniacale sul testo: sono numerosissime le cancellature
e le correzioni, fatte anche a distanza di mesi dalla prima stesura. Addirittura,
quando la correzione riguardava una porzione più ampia di testo, Gadda era
solito incollare una grande toppa di carta sul suo quaderno per poterci riscrivere
sopra. Questo delirio creativo lo portava a rimandare anche di molto tempo la
pubblicazione di un libro. La cognizione del dolore, per esempio, ha
conosciuto una storia editoriale dalla durata più di trent’anni, durante i
quali Gadda fa impazzire il suo editore tra proroghe e ripensamenti. Chi
volesse provare a seguire questo la storia di questa può provare a leggere le lettere
personali, spesso spassose e ingarbugliate tanto quanto i suoi romanzi, che
Gadda inviava a Einaudi.[3]
Questi tre
brevissimi esempi ci fanno capire che la creazione di un’opera non è qualcosa
di immediato: nessuno scrittore, si occupi esso di poesia o di prosa, pubblica
qualcosa scritto di getto; il lampo di genio non esiste in letteratura, anzi il
più delle volte il processo creativo può durare molto a lungo e essere ricco di
ripensamenti. Spesso poi il lavoro di uno scrittore non si esaurisce con la
prima pubblicazione del suo testo, ma può continuare per anni portando così a
ristampe anche molto differenti tra loro per forma e contenuto.
Recentemente
nelle università si è iniziato a studiare il processo di scrittura di un testo
e la forma che esso assume nelle sue diverse fasi cronologiche. Vengono prese
in considerazione tutte le varianti, le diverse versioni e le correzioni d’autore
col fine di creare un’unica edizione che comprenda il tutto. Nelle università,
a partire da questi lavori, nasce una nuova disciplina: la filologia d’autore.
I suoi interessi vengono così riassunti da Dante Isella:
La filologia d’autore
è quel settore della filologia che si occupa dello studio delle varianti,
presenti su manoscritti o stampe, dovute a una diversa volontà degli autori relativamente alle loro opere.
Sia chiaro: in queste poche righe non abbiamo intenzione di occuparci di filologia d’autore. Il nostro unico desiderio è quello di mostrarvi due versioni della stessa poesia di Alfonso Gatto e indicarvi, anche molto banalmente, in cosa e come cambia. Il resto del divertimento lo lasciamo ai filologi.
Alfonso Gatto
(Salerno 1909 – Capalbio 1976) è stato uno dei più importanti poeti del nostro Novecento.
Il suo esordio si ha negli anni ’30 con le raccolte Isola (1932) e Morto
ai paesi (1937).
Proprio negli
anni Trenta in Italia si sviluppa un nuovo modo di intendere la poesia che i
critici, molti anni dopo, etichetteranno col nome di ermetismo. I testi composti
in quegli anni si fanno sempre più complessi, sia dal punto di vista
contenutistico, diventa sempre più complesso capire di che cosa sta effettivamente
parlando il poeta, sia a livello sintattico e lessicale. Il critico Pier
Vincenzo Mengaldo studia attentamente il linguaggio utilizzato da tutti i poeti
considerati ermetici e riesce a individuare addirittura dodici suoi elementi
caratterizzanti, come ad esempio l’omissione dell’articolo o l’utilizzo del plurale
dove ci si aspetterebbe un termine al singolare. Ovviamente, i poeti scrivono
prima dei critici. E le osservazioni fatte da Mengaldo riassumono in modo
puntuale una tendenza che si è sviluppata spontaneamente e in maniera
differente da poeta a poeta.
Per quanto
riguarda Gatto possiamo osservare nella sua giovinezza un modo solo vagamente
ermetico di intendere la poesia. Certo le forme da lui utilizzate possono
sembrare tutt’altro che semplici, ma il soggetto della sua lirica è sempre
chiaro e il significato profondo di quello che scrive riesce sempre a
trasparire.
Successivamente,
così come nel tempo come cambia l’aspetto della lirica in Italia, cambia anche la
sensibilità poetica di Gatto e la sua poesia si fa più chiusa e difficile da
decifrare. A questo cambiamento
corrisponde la volontà di rivedere quello che aveva già scritto e di modificare
forma e contenuto delle sue prime raccolte poetiche. Prima di ristampare le sue
prime raccolte Gatto rimette quindi mano ai testi già pubblicati, cambiandoli
anche drasticamente. La poesia Alba, edita per la prima volta in Isola
nel 1932, ci fornisce un esempio di questo lavoro di revisione.
Alba
Attendo senza
parere, ma buono,
nella forma
docile in cui consuetamente m’odoro
capito a
nascere
4 soffiato dalla mattina.
… si stacca
conserta nel mio sguardo lento
la riva
lambita di nebbia:
tenero gelo
svagato
8 trapela il cielo.
In una selva
molle di nuvole e di nevi
pozz’acre di
verde si rimescola il mare:
la bocca
fredda mi rovescia in suono…
12 Lo spazio smemorato si ridesta
tra
lontananze, ventilato leggero.
Questa è la
versione di Alba così come appare per la prima volta nell’edizione di Isola
del 1932.
La poesia ha
una struttura molto semplice: le quattro strofe che la compongono hanno
lunghezza decrescente e sono autonome dal punto di vista del contenuto. Non è
presente uno schema di rime ben definito, al massimo si possono far notare le
assonanze cielo:leggero (vv. 8:13) e buono:odoro (vv. 1:2). I versi hanno tutti
lunghezza diversa, si passa da versi classici come l’endecasillabo (v.1) o il novenario
(v.6) a versi molti lunghi e dall’andamento prosastico (vv.1, 5). La
punteggiatura scandisce l’andamento del testo e aiuta il lettore nella sua
comprensione.
Il contenuto
del testo, apparentemente molto complicato, ci viene svelato dal titolo: Gatto descrive
in maniera ordinata le prime ore del giorno. In particolare il momento del risveglio
ci viene presentato come se fosse una rinascita: uno dopo l’altro il poeta
riscopre i propri sensi e il proprio mondo, fino al totale risveglio e al
ritorno alla vita.
Il risveglio
ha inizio nella prima strofe. Qui il poeta dal caldo delle sue coperte viene al
mondo quasi per caso, come un bambino. Il senso dominante è quello dell’olfatto
(consuetamente m’odoro, v.2). Nella seconda strofe l’attenzione passa
alla sfera sensoriale della vista e alla visione della luce, è il momento in
cui il poeta, ancora assonnato, apre per la prima volta gli occhi. Il suo
sguardo (v.5) passa dalla nebbia del sonno al chiarore del cielo. Nella terza
strofe compare invece il mare. Qui è la componente uditiva a prevalere: non
solo in maniera diretta attraverso l’utilizzo del termine suono (v.11), ma
anche indirettamente attraverso l’onomatopea rimescola il mare (v.10),
che ricalca il frangersi delle onde sugli scogli, e il forte suono del sintagma
pozz’acre (v.10). Infine, nell’ultima strofe, con l’utilizzo del verbo ridestarsi
(v.12), si conclude il risveglio. Il poeta riconosce finalmente le sue stanze (lo
spazio smemorato, v.12) e se stesso. Ma non si tratta di un risveglio
tranquillo: l’immagine finale della calma del vento (v.11), che sembra indicare
un momento di quiete dopo una tempesta, sembra chiudere quello che è stato un
incubo.
Alba
Passerà l’alba
in un sogno
al freddo
freddo d’ogni casa
al solitario
azzurro del mare.
4 È nudo il mondo un’altra volta.
Erompa il
cuore con la mela rossa
contenta d’esser
dura.
In una selva
molle di nuvole e di nevi
8 pozz’acre di verde si rimescola
il mare.
Lo spazio
smemorato si ridesta
tra
lontananze ventilato leggero.
Questa è la versione di Alba così come si ritrova nelle raccolte più recenti.[5] A prima vista si potrebbe quasi dire che si tratta di due poesie completamente differenti, anche la sua posizione nella raccolta è differente. Per aiutarci a riconoscerla sono fondamentali gli ultimi quattro versi, che rimangono quasi invariati. Tutto il resto è stravolto, eppure si tratta della stessa poesia.
La forma è
molto diversa: ci sono sempre quattro strofe ma sono notevolmente più corte, i
versi totali passano di tredici della versione precedente a dieci. Anche qui
non è presente un sistema di rime fisso, tuttavia la lunghezza dei versi si fa
più omogenea: si sta intorno a misure più standard quali l’endecasillabo (v.5,
9), il novenario (vv.1, 2, 4) e il settenario (v.6) e sono meno frequenti i
versi lunghi. Va anche notato come la punteggiatura si faccia quasi assente e
come l’andamento sia esclusivamente asintotico: sopravvive solo il punto fisso
presente due volte nella strofe lunga e una sola volta a conclusione di quelle
più brevi.
Il contenuto
rimane bene o male lo stesso: viene descritto il momento del risveglio dal
sonno nelle prime ore della mattina. Le differenze stanno nel modo di descriverlo,
a partire dal punto di vista che si dà al testo. Si passa infatti da una lirica
in prima persona, a una in terza, molto più impersonale. Il poeta decide di fare
un passo indietro rispetto al testo per fare in modo che il lettore possa
vivere l’esperienza del risveglio come se fosse propria. In questo modo Gatto
declina la propria poesia in un’accezione più universale.
Un’altra
differenza sostanziale consiste nella rinuncia a descrivere il risveglio attraverso
la descrizione delle sfere sensoriali a lui collegate. Ciò avviene non solo
nelle prime due strofe, completamente riscritte da Gatto, ma anche nella terza,
mantenuta identica salvo il taglio del verso contenente il riferimento alla
voce. Gatto sostituisce la descrizione dei sensi con qualcosa di diverso ma
altrettanto evocativo: i colori. La poesia di Gatto è celebre per i suoi
cromatismi. Qui nelle prime tre strofe vengono indicati in ordine l’azzurro (v.3),
il rosso (v.5) e il verde (v.8).
L’atmosfera di risveglio da un incubo evocata dall’ultima strofe viene rafforzata dai versi 5 e 6. L’immagine della mela rossa fa infatti riferimento a un fenomeno tipico dell’infanzia: il bambino, in preda all’incubo, sogna di morire e si desta di colpo. La mela rossa contenta d’esser dura è semplicemente un bimbo contento d’esser vivo.
[1] confrontare la foto
[2]codice Vaticano Latino 3196, Roma, Biblioteca apostolica vaticana
[3] Pier Vincenzo Mengaldo, Il linguaggio della poesia ermetica, in La tradizione del novecento, Torino, Einaudi, 1991
[4]faccio riferimento a Alfonso Gatto, Isola, Avellino, Pergola editore, 1994 (copia anastatica dell'edizione del 1932)
[5]faccio riferimento a Alfonso Gatto, Tutte le poesie, Milano, Mondadori, 2017
Matteo
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