Alla fine degli anni Ottanta, Giovanni
Raboni (1932-2004) inaugura una nuova fase della sua attività creativa, legata
al recupero delle forme metriche tradizionali, non in chiave di un ritorno
all’ordine fine a stesso, bensì avvertendo «l’esigenza di qualcosa di
resistente contro cui lottare per creare una nuova espressività».[1]
Bisogna ricordare che, in quel periodo, la poesia italiana stava assistendo a
un diffuso e rinnovato interesse per le forme chiuse, tanto che si può
considerare tale tendenza una reazione al frenetico contesto sociale, volta a
rallentare un’accelerazione temporale che stava strappando l’uomo fuori da se
stesso, limitandone il pensiero critico. Il rapporto tra la trasformazione
della società e le esigenze di una nuova poesia emerge limpidamente dalle
parole di Antonio Porta, tra gli intellettuali più prossimi a Raboni proprio in
quegli anni:
Se qualcuno mi chiedesse qual è il comune
denominatore tra linguaggi di poesia che ci arrivano da personalità molto
diverse e in opposizione […] risponderei senza esitare: rallentare il tempo, quasi fermarlo […]. Sballottati e frastornati
dalla continua tempesta temporale che ci trascina lontano, non si sa dove, si è
d’improvviso attratti dalla zona di calma atemporale che alcuni poeti sono
riusciti mirabilmente a costruire, opponendosi all’insostenibile modello di
vivere contemporaneo, con una capacità di resistenza più che ammirevole,
sorprendente.[2]
Per Raboni, il percorso di avvicinamento
alle forme chiuse ha inizio nel 1985 con la raccolta Canzonette mortali, e giunge a piena maturazione con la
pubblicazione di Ogni terzo pensiero
(1993), dopo aver attraversato una fase di più aperta sperimentazione con Versi guerrieri e amorosi, usciti nel
1990. La prima sezione, omonima, delle Canzonette
mortali verrà ripubblicata nella raccolta A tanto caro sangue (1988), mentre la terza, Sestine e sette temi da Arnaut Daniel, sarà ripresa e ampliata in Versi guerrieri e amorosi. Si tratta di
raccolte in qualche modo legate tra loro, perché oltre a gettare le basi da cui
poi emergerà il Raboni successivo, rappresentano la svolta che unisce la forma
chiusa ai principi di classicità e anacronismo: un cambiamento di rotta che ha
somiglianze con le esperienze di giovani poeti e con l’opera dell’ultimo
Fortini.
Oltre all’impiego delle forme chiuse, le liriche della raccolta si snodano tutte in un unico periodo, tanto che la sintassi sembra sciogliersi in un discorso detto tutto d’un fiato, in un unico pensiero. Si tratta di «poesie che liquidano, nella loro ricchissima attrezzatura, l’effimera prosa versificatoria […] mentre, accanto al gioco della rima, i settenari e gli endecasillabi, ma soprattutto gli ottonari e i novenari»[3] non solo tornano in auge, ma anzi, vengono ripresi secondo le possibilità sperimentali della metrica. Risulta evidente il cambiamento rispetto al primo Raboni che adoperava con molta parsimonia le figure retoriche e rifiutava ogni compiacimento estetico: da questo momento, insomma, il poeta abbandona le tipiche «movenze prosastiche e colloquiali».[4]
In particolare, Reliquie arnaldine,
la terza e ultima sezione dei Versi
guerrieri e amorosi, può essere considerata un vero e proprio laboratorio
di sperimentazione della forma: Raboni, infatti, ripesca i componimenti del
trovatore perigordino e li utilizza come modello per forgiare la propria
materia poetica. Le ‘reliquie’ sono, per definizione, gli ‘avanzi’, i ‘resti’,
ma, se considerate in senso religioso, possono diventare oggetto di venerazione
da parte del credente. L’operazione di recupero della forma che si accinge a
compiere Raboni, unita al linguaggio religioso – una costante, nella produzione
raboniana –, assume il carattere di una riscoperta della tradizione formale da
parte del poeta che, alla stregua di un fedele, rende i dovuti onori a ciò che
resta del repertorio trobadorico, incarnato nella figura di colui che più di
ogni altro ha saputo distinguersi per la sua abilità tecnica e formale. Si
tratta, in ultima istanza, di raccogliere gli “ossi di seppia” lasciati sulle
spiagge del tempo, al fine di valorizzarli reinterpretandoli.
La serie di traduzioni-variazioni su
Arnaut Daniel contenuta in Versi
guerrieri e amorosi, non è altro che una ripresa della sezione Sestina e sette temi da Arnaut Daniel
(1984) delle Canzonette mortali,
ampliata numericamente: da sette a quindici frammenti. Con le Reliquie arnaldine, Raboni raggiunge il
punto più alto di formalizzazione, tanto che riesce ad annullare il discrimine
fra il puro esercizio metrico-retorico e la poesia propriamente detta. Infatti,
egli stesso dichiara:
Io considero questa parte del mio lavoro
strumentale e in qualche modo propedeutica: l’ho inserita per documentare un
certo lavoro, ma naturalmente il fatto stesso di esercitarsi su testi altrui,
su una poesia già esistente accentua l’aspetto formale fino ad assolutizzarlo.
A me è servito per applicare alcuni strumenti, di cui mi sembra di aver
perfezionato il possesso, in testi che ho scritto successivamente, in parte nei
Versi guerrieri e amorosi,
contemporanei a quel lavoro, in parte nei sonetti di Ogni terzo pensiero.[5]
Dunque, siamo in presenza di un’aperta fase di sperimentazione, vissuta da Raboni con una certa dose di curiosità nel ricercare un tono diverso per la propria scrittura che poi troverà proprio nella forma chiusa lo spazio adatto per la confessione di sé. Rimanendo nelle Reliquie arnaldine, possiamo dire con Fabio Magro che «qui la forma non è tanto uno schermo dietro cui difendersi […], ma una sorta di macchina del tempo in cui paradossalmente annullare tutti i tempi».[6] Infatti, era stato Raboni stesso ad affermare di essersi garantito il passaggio da una fase all’altra del rapporto poesia-biografia grazie all’adozione ufficiale della forma chiusa; tanto che, se prima, anziché parlare alla prima persona, aveva utilizzato come maschera una specie di correlativo oggettivo, nascondendosi dietro a storie e personaggi, «a un certo punto è prevalsa la necessità di parlare un po’ più di sé», un’esigenza che l’ha portato a cambiare maschera, e a indossare quella del sonetto, perché «bisogna essere ben difesi per scrivere un diario».[7]
Se nei frammenti delle Reliquie
arnaldine la tensione è tutta sulla forma, e non c’è, da parte di Raboni,
alcun proposito di traduzione, non si può dire lo stesso della poesia che apre
la sezione, Voglia che in cuore m’entra,
vera e propria traduzione della sestina di Arnaut Daniel. L’attività di
traduttore svolge un ruolo estremamente importante nel recupero delle forme
metriche tradizionali da parte di Raboni, tanto che egli stesso rivela di aver
iniziato a prestare attenzione alla metrica nel momento in cui si accingeva a
tradurre la Fedra di Racine. Ma, più in generale, ad influire sulla sua
poesia sono state le traduzioni non pubblicate, infatti:
Da ragazzo ho tradotto tanto Eliot
proprio per passione: non credo fosse granché ma ci ho lavorato molto. Pound
meno, ma l’ho letto forsennatamente ed è importante per me. Queste credo che
abbiano influito molto, queste traduzioni di apprendistato. Erano cose mie
private, una forma di lettura approfondita, un modo di impossessarmi di questi
grandi poeti.[8]
La traduzione intesa come officina del
poeta-artigiano è un discorso che vale tanto per Raboni quanto per Ezra Pound,
per il quale costituisce l’imprescindibile punto di partenza della sua prassi
compositiva. Entrambi i poeti, insomma, ritengono la traduzione «una tecnica da acquisire con l’esercizio; un
mezzo per studiare e comprendere il
passato».[9]
Se poniamo la traduzione raboniana a
confronto diretto con il testo arnaldiano, possiamo notare come Raboni rispetti
la struttura metrica di Arnaut, per cui ogni stanza si apre con un ottonario, a
cui fanno seguito versi endecasillabi, contravvenendo alla tradizione istituita
da Dante, che preferiva l’endecasillabo anche in posizione iniziale, perché più
solenne ed elegante dell’ottonario. Già da questo particolare si può evincere
l’atteggiamento di Raboni che tenta di recuperare nel modo più autentico il
testo di Arnaut svincolandosi da ogni reminiscenza dantesca e, di conseguenza,
dalla consolidata tradizione del genere. Inoltre, è interessante notare che
nella tornada, traducendo «cledisat», Raboni non adotti la versione di
Eusebi («canto contesto a graticcio»), ma scelga il sostantivo «cruciverba»,
che meglio suggerisce il complesso affastellarsi delle parole all’interno
dell’intricato schema della sestina. Quasi che Raboni, al termine del suo
componimento voglia rimarcare il principio di retrogradatio cruciata che regola l’intera struttura che «podría dar la impresión de
un pueril rompecabezas».[10] «Cruciverba» o «rompicapo», la sestina intesa come una sorta di
passatempo stimolante e ludico assieme, rimane, alla fine, quell’enigma che
bisogna sciogliere per entrare nelle sue aggrovigliate stanze.
Riassumendo, possiamo concludere che il
debito raboniano nei confronti di Arnaut Daniel senza dubbio si evince dallo
sforzo di mimare la ricercatezza del suo trobar
clus attraverso la resa oltremodo artificiosa della sintassi: ne sono un
esempio alcuni forti iperbati (vv. 2-3: «non si potrà da becco o unghia» /
«scalfire d’uomo»; v. 35: «quanta in cielo avrò gioia a doppio»), il participio
assoluto (v. 5: «assente zio»), e la frequente ellissi dell’articolo
determinativo (v. 28: «in alma»; v. 31: «dentro stanza»; v. 38: «di sua verga»;
ecc.). Benché molte di queste soluzioni siano state adottate per esigenze
metriche, non si può escludere una certa tensione all’ermetismo: infatti,
proprio l’uso del sostantivo assoluto, senza l’articolo, compare tra i fenomeni
stilistici più ricorrenti rilevati da Pier Vincenzo Mengaldo nel suo saggio sulla
poesia ermetica.[11]
A marcare ermeticamente il testo di Raboni è anche il lessico impreziosito che
ben si nota nella resa del provenzale arma,
con «alma» anziché «anima»: scelta formale adottata sicuramente per mantenere
la quantità sillabica delle parole-rima, ma che rende anche evidente il fatto
che «nella traduzione della sestina, l’elemento che forse serve meglio di altri
a connotare il tono del testo approntato da Raboni è di carattere lessicale».[12]
Inoltre, la raccolta nel suo complesso è dominata dalla persistenza della «stanza» (termine con cui, peraltro, Raboni traduce il provenzale cambra), che, nella sua chiusura rispetto al mondo esterno, contribuisce a creare un’atmosfera di assolutezza temporale e spaziale. Di conseguenza, i frammenti di Arnaut e in particolare la sestina, nella sua intrinseca rigidità, non fanno altro che «saldare tutto ciò grazie alla chiusura formale della sestina e all’atemporalità di un linguaggio che non è quello del Duecento, non è […] quello della tradizione lirica, anche se ne rappresenta un’imitazione, una sorta di elegante cristallizzazione».[13]
Proprio «l’atemporalità del linguaggio»
rappresenta il discrimine più evidente tra le Reliquie arnaldine e la traduzione della sestina. Sembra, infatti,
che Raboni, nella sua versione de Lo ferm
voler qu’el cor m’intra, miri alla creazione di un linguaggio immediato, ma
allo stesso tempo prezioso; ermetico, ma universale: un’universalità che si
misura nella capacità di evocare le reliquie del passato trasferendole
icasticamente su un eterno presente; un’universalità suggerita proprio dalla
chiusura del linguaggio in un vortice senza tempo, e per questo immortale.
Rispetto alle Reliquie arnaldine,
stilisticamente più semplici e meno connotate ermeticamente, la sestina di
Raboni si configura come una smaniosa ricerca artistica per offrire al lettore
moderno una parvenza di trobar clus
nel XX secolo. Nelle Reliquie,
infatti, non c’è l’intenzione di tradurre, bensì di muoversi liberamente nei
dintorni del corpus arnaldiano, creando dei rifacimenti che non sono altro che
suggestioni su temi dati. Nella traduzione, invece, con la lingua e i mezzi che
sono propri di un poeta del Novecento, Raboni è in grado di trasmetterci un
testo che si delinea come un prodotto artigianale indipendente; la versione
raboniana, infatti, anche quando si presenta pedissequamente fedele al modello,
non si limita alla mera traduzione di servizio, ma anzi, oltre a rappresentare
un chiaro esercizio di stile, assume la profonda valenza di testo poetico a sé stante,
svincolato dall’originale per la forza evocativa della parola, al di là del suo
essere il frutto di un’operazione di traduzione.
In definitiva, non è casuale che Raboni,
nel suo recupero della forma tradizionale, abbia scelto di esercitarsi sulla
fredda e rigida materia del «miglior fabbro», importante non solo in quanto
inventore della forma, ma anche emblema di estrema perizia tecnica, e quindi
inevitabile palestra di esercizio per chiunque si consideri apprendista. Ed è
proprio in questa sperimentazione che ben si evidenzia l’approccio ludico e
quasi giocoso che caratterizza complessivamente le Reliquie arnaldine, raccolta in cui «la meccanicità della struttura
insieme alla forma chiusa e iperconnotata svolge evidentemente una funzione di
raffreddamento di una materia che si indovina invece a ancora incandescente».[14]
Ecco una selezione delle Reliquie
arnaldine a disposizione del lettore:
Con gli altri faccio finta di giocare
ma il giorno è lungo e mi sembra un mortorio.
Che languore è l’attesa per gli amanti!
O sole, o luna, vorrei che più spesso
vi mancasse la luce.
***
Di quello che ho nel cuore
parlo poco, mi frena la paura.
E voglio e soffro, e mi farà morire
la cosa che la lingua non sa dire.
***
Di quello che ho nel cuore
parlo poco, mi frena la paura.
E voglio e soffro, e mi farà morire
la cosa che la lingua non sa dire.
***
Quando il freddo che indura
fa di vetro la scorza del nocciolo
vedo dei dolci canti sfarsi il brolo:
ma chi sta con Amore
di chi resta e chi va non si dà cura.
***
Vacilla il cuore e sbanda
se di lei solo gli occhi hanno vivanda
e palpitando a sapere m’invita
che questa poca vita è la mia vita.
[1] Daniele Piccini, Giovanni Raboni, «Cahiers d’Art», 7,
primavera 1995, pp. 172-175, cit., p. 172. Anche in Giovanni Raboni, L’opera poetica, a cura di Rodolfo
Zucco, Milano, Mondadori, «I Meridiani», cit., pp. 1645-1646.
[2] Antonio Porta, Il progetto infinito, a cura di Giovanni Raboni, Roma, Edizioni «Fondo
Pier Paolo Pasolini», 1991, cit., p. 118.
[3] Luigi Baldacci, Amore e guerra, «L’Europeo», 16 giugno 1990; poi in Tutte le poesie (1951-1993), Garzanti,
Milano, 1997, pp. 350-353 e in Tutte le
poesie (1951-1998), Garzanti, Milano, 2000, pp. 420-423. Anche in Raboni, L’opera poetica, cit., p. 1643.
[4] Fabio Magro, «Ombra ferita, anima che vieni» di Giovanni
Raboni, «Per leggere», IV, 6, primavera 2004, pp. 257-299, cit., p.
145. Anche in L’opera poetica, cit.,
p. 1648.
[5] Piccini, Giovanni Raboni, cit., p. 172. Anche in Raboni, L’opera poetica, cit., p. 1658.
[6] Magro, Un luogo della verità umana. La poesia di Giovanni Raboni, cit., p.
175.
[7] Massimo Gezzi, Credere ancora nella poesia. Incontro con
Giovanni Raboni, «Atelier», VIII, 29 marzo 2003, pp. 29-40, cit., pp.
35-36. Anche in L’opera poetica,
cit., p. 1647.
[8] Ivi,
cit., p. 133.
[9] Roberta Capelli, Tradurre i trovatori: un esempio poundiano. Arnaut Daniel, Chansson doil mot son plan e prim,
«Lecturae tropatorum», 11, 23 febbraio 2018, cit., p. 2.
[10] Martí de
Riquer, Los trovadores. Historia
literaria y textos, Barcelona,
Planeta, 1975, cit., p. 643.
[11] Pier Vincenzo
Mengaldo, Il linguaggio della poesia
ermetica, in «AA.VV. Dai solariani agli ermetici. Studi sulla letteratura
italiana degli anni Venti e Trenta», Milano, 1989, pp. 1-25.
[12] Magro, Un luogo della verità umana. La poesia di Giovanni Raboni, cit., p.
182.
[13] Ivi,
cit., p. 183.
[14]Ivi, cit., p. 192.
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