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Omaggio a Céline e alle sue contraddizioni

Il 2 luglio 1961, nella sua casa di Ketchum, nell’Idaho, la signora Mary Welsh viene svegliata da un forte rumore. Scesa in cucina, si trova davanti a una scena tragica eppure facilmente prevedibile: il marito Ernest Hemingway, da tempo affetto da gravi crisi depressive, si è suicidato sparandosi un colpo di fucile in bocca. La morte del grande scrittore americano, autore di romanzi importantissimi quali Addio alle armi (1929) e Per chi suona la campana (1940), farà rapidamente il giro del mondo e diverrà notizia da prima pagina per i principali quotidiani americani ed europei. È possibile però che sugli stessi quotidiani (ma forse nemmeno su tutti…), dopo le numerose pagine dedicate a Hemingway e dopo le altre notizie di cronaca, il lettore potesse trovare un articolo, magari un trafiletto di poche righe, magari senza la fotografia, dedicato alla morte di un altro scrittore. Il primo di luglio infatti, mentre a Ketchum Hemingway trascorreva le ultime ore della sua vita, circa quattromila chilometri a est, a Meudon, periferia di Parigi, si spegneva Louis-Ferdinand Céline, scrittore unico e geniale a cui dobbiamo due dei più grandi romanzi del secolo scorso.



Il primo dei due capolavori di Céline è il Viaggio al termine della notte (1932), ed è certamente il più conosciuto e facilmente reperibile tra i libri del nostro autore. Vi troviamo narrate le tragicomiche disavventure di Ferdinand Bardamu, un moderno picaro che, per chissà quale maledizione del destino, si ritrova sempre nei luoghi in cui la Storia del Novecento si accanisce maggiormente: Bardamu partecipa alla Prima guerra mondiale, sperimenta le condizioni di vita nelle colonie francesi, lavora in una fabbrica di automobili Ford, torna infine a Parigi a svolgere la professione di medico nelle periferie più povere e degradate della città. Ma in tutte le sue peregrinazioni il nostro (anti-)eroe si rende conto che una cosa rimane identica sia all’ombra della torre Eiffel, sia sotto il sole africano, sia nella east coast degli Stati Uniti: gli uomini. Uomini ricchi, potenti e prepotenti e uomini poveri, costretti a obbedire. La guerra è voluta dal potente ma combatterla non è affar suo, spetta al povero difendere la patria da un altro povero che parla una lingua diversa e che improvvisamente diventa un nemico: 

Lui, il nostro colonnello, sapeva forse perché quei due là sparavano, i tedeschi forse anche loro lo sapevano, ma io, veramente, non lo sapevo. Per quanto lontano cercassi nella memoria, gli avevo fatto niente io ai tedeschi.[1]

Altro luogo in cui prende forma questo rapporto conflittuale tra il ricco e il povero è la catena di montaggio delle officine Ford. Attraverso le esperienze del suo alter-ego Bardamu, Céline ci fa capire meglio di chiunque altro come funziona il lavoro in fabbrica:

Non ti serviranno qui i tuoi studi, ragazzo! Mica sei venuto qui per pensare, ma per fare i gesti che ti ordineranno di eseguire… Non abbiamo bisogno di creativi nella nostra fabbrica. È di scimpanzè che abbiamo bisogno… Ancora un consiglio. Non parlare mai più della tua intelligenza! Penseremo noi per te amico! Tienitelo per detto.[2]



Il Viaggio al termine della notte dunque è un dipinto e cupo e pessimista della prima parte del secolo scorso. Una versione alternativa della Storia raccontata, per una volta, da un perdente: il sarcastico, cinico, spesso blasfemo e disonesto Ferdinand Bardamu.

Lo stesso personaggio ricompare nell’altro grande romanzo di Céline: Morte a credito (1936). Scritto dopo ma ambientato qualche anno prima: il libro infatti racconta gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza di Ferdinand, trascorsi con i genitori e la nonna in una povera casa al passage Choiseul di Parigi (per i più curiosi, il passage è tutt'ora esistente e visitabile, ma al posto delle botteghe descritte dal grande scrittore si troveranno numerosi ristoranti cinesi e italiani…). In Morte a credito osserviamo i vari membri della famiglia Bardamu costretti a ingegnarsi in ogni modo per scampare alla fame e alla miseria; il giovane Ferdinand in particolare, nel tentativo di fare qualche soldo, si imbarca nelle imprese più fallimentari e grottesche, finendo quasi sempre per perdere denaro, dignità e stima dei genitori.



Questo romanzo, pur avendo una struttura simile (il racconto ininterrotto delle proprie incredibili peripezie da parte del povero Ferdinand), si distingue dal precedente per la scrittura, una scrittura unica, che diventerà per Céline un vero e proprio marchio di fabbrica:

Mia madre la sento batter l’eterno chiodo… Sta raccontando le sue traversie alla signora Vitruve… Si rifà sempre daccapo perché a quella entri bene in testa quant’io sia scorbutico… Spendaccione!... Caposcarico!... Poltrone!... Com’io non abbia preso nulla dal padre… Così ammodo, lui… così laborioso… così riguardoso… così scalognato… ch’è morto l’inverno scorso… Già… Mica le dice dei piatti che lui le spaccava sulla chiorba… Macchè![1]

Ci basta una semplice frase per capire che Céline è tra i pochi autori dalla scrittura davvero inconfondibile. Tra i suoi maggiori tratti di originalità l’utilizzo dell’Argot: il gergo parlato dalle classi popolari nelle periferie di Parigi, unito a termini del linguaggio colto (si tratta chiaramente di una caratteristica difficile da osservare, vista anche l’impossibilità per un traduttore di renderla perfettamente in italiano.). La sintassi è continuamente spezzata, ricca di ellissi e iperboli, la punteggiatura perde totalmente la sua consueta funzione e diventa strumento espressivo. Tutto ciò ha un’unica, fondamentale funzione: rendere il testo scritto il più possibile simile al parlato, far quindi sentire al lettore la propria storia narrata attraverso il suono della propria voce.

Ma se davvero Louis-Ferdinand Céline è tra gli autori più grandi del Novecento (e su questo, leggendo i suoi due maggiori romanzi, non possiamo avere dubbi), come mai un così assordante silenzio in occasione della sua morte? E come mai, ancora oggi, pur in parte riabilitato, non gode della stima e della considerazione che meriterebbe? Nel 1937 Céline, dopo aver convinto tutti con i suoi due romanzi, decide di schierarsi politicamente pubblicando una serie di tre opuscoli politici: Bagatelle per un massacro (1937), La scuola dei cadaveri (1938) e La bella rogna (1941). In questi tre brevi ma sconvolgenti testi l’autore denuncia la situazione di grave decadenza in cui si trova la Francia, decadenza causata dai comunisti e, soprattutto, dagli esponenti della razza ebraica che, non solo detengono il monopolio economico ma, mescolandosi ai francesi, ne “inquinano” la purezza razziale. L’autore auspica quindi una pulizia da ogni influenza ebraica e un’alleanza della Francia con la Germania di Hitler al fine di iniziare una guerra tra gli stati ariani e le “democrazie giudaizzate” del Regno Unito e degli Stati Uniti, cioè gli stati ormai totalmente succubi dello strapotere economico degli ebrei. Si tratta chiaramente di idee inaccettabili e prive di fondamento, frutto di un razzismo cieco e del tutto ingiustificabile. A causa delle proprie idee lo scrittore, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, sarà esiliato dal proprio paese natale e troverà rifugio in Danimarca, dove rimarrà fino al 1951. Anche dopo il ritorno in patria, Céline sarà trattato con scarsa considerazione dai colleghi scrittori, quasi dimenticato dai lettori e il suo nome sarà sempre considerato sinonimo di razzismo e collaborazionismo.



Tutto ciò ci fa ben capire perché Céline non gode del posto che meriterebbe nella storia della letteratura. Si tratta certamente di un autore scomodo e imbarazzante, un sostenitore delle più deliranti tesi razziste, un simpatizzante della Germania di Hitler. Ciò che invece ancora ci sorprende, è come sia possibile che l’uomo che ci ha regalato due dei più lucidi e profondi romanzi mai scritti, sia stato capace di portare avanti opinioni criminali e prive di qualsiasi fondamento logico. Eppure, pensandoci bene, Céline è il perfetto rappresentante del suo secolo: il Novecento è il secolo delle grandi innovazioni tecnologiche, delle avanguardie, di alcune delle più grandi opere letterarie mai scritte ma, ci fa notare Walter Benjamin: «Non è mai documento di cultura senza essere, nello stesso tempo, documento di barbarie.»[1]. Ciò significa quindi, che ogni conquista nasconde per forza di cose un altro lato della medaglia: lo sviluppo eccezionale dell’industria porta con sé una nuova forma di schiavitù, quella della catena di montaggio, le idee rivoluzionarie delle avanguardie aprono la strada ai nascenti fascismi, Martin Heidegger, il maggior filosofo del Novecento, può portare all’occhiello la spilla con la svastica e la scrittura di Céline, forse, è così originale e potente proprio in virtù della follia e della perversione che rodono l’animo dell’autore.


Nico



[1] L.F. Céline, Viaggio al termine della notte, Milano, Corbaccio, 1992, p. 18.

[2] Ivi, p. 252.

[3] L.F. Céline, Morte a credito, Milano, Garzanti, 1975, pp. 27-28.

[4] W. Benjamin, Tesi di filosofia della storia, Milano-Udine, Mimesis, 2012, p. 14.

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