Dall’alba dei tempi alle scuole superiori si fa il tema, nobilissimo sistema per insegnare agli studenti l’arte della scrittura. Esistono vari tipi di tema: l’analisi del testo, il tema libero, il saggio breve, il saggio storico. Regole fondamentali del saggio breve? Oggettività e aderenza alle fonti. Mai usare la prima persona singolare, l’insegnante su questo è piuttosto chiaro. I nostri articoli, memori di quest’antica lezione, generalmente si attengono alle regole basilari del saggio breve. D’altro canto Baudelaire riteneva che la vera critica letteraria dovesse essere «parziale, appassionata, politica, vale a dire condotta da un punto di vista esclusivo, ma tale da aprire il più ampio degli orizzonti»[1], una critica personale insomma, ma proprio per questo universale. Detto ciò, utilizzare la prima persona singolare non è solo concesso, è utile e giustificato. E mi pare quindi altrettanto giustificato far partire la mia riflessione da un ricordo personale. Con la speranza di renderlo universale.
Un paio d’anni fa, con
due amici, ho attraversato in treno vari paesi dell’est Europa, dopo varie
tappe sono sceso alla stazione di Belgrado. In città ho scattato varie foto,
tra le altre, questa:
Per metà bel palazzo storico, per metà orribile edificio moderno, in alto la bandiera della vecchia Jugoslavia. Questa è la foto che utilizzerei dovendo descrivere Belgrado, una città a metà. Una città in cui la storia è passata più e più volte, sottraendo ogni volta qualcosa, lasciando delle profonde cicatrici (a Belgrado, ancora oggi, è possibile vedere gli edifici devastati dai bombardamenti del 1999), ma rendendo la città diversa da qualsiasi altra, a metà tra il passato e il futuro.
Uno dei più bei testi mai
scritti su questa “città a metà” è Lamento per Belgrado, di Miloš
Crnjanski, un breve poema di 120 versi suddivisi in 10 strofe. Il Lamento
è il testo di un esiliato: mentre scrive, nel 1956, Crnjanski si trova in
Inghilterra da undici anni. E dovranno passarne altri nove prima che l’autore,
nel 1965, possa ritornare a Belgrado. Nell’edizione italiana del testo[2] Massimo Rizzante,
traduttore e curatore dell’opera, inizia il suo breve saggio introduttivo
partendo anch’egli da un ricordo:
Ricordo di aver conosciuto a
Parigi, agli inizi degli anni Novanta, molti studenti e scrittori serbi e
bosniaci che, fuggiti dai loro paesi, si adattavano per sopravvivere ai lavori
più bizzarri […] ho conosciuto da vicino il valore che un’opera letteraria
assume quando è creata o letta in condizioni materiali di vera indigenza,
diventando spesso più preziosa del pane. Ho conosciuto anche le due dimensioni
dell’esilio: da una parte, lo slancio liberatore che il vivere altrove genera
nell’esule, spingendolo, attraverso l’uso di una tonalità allo stesso tempo
elegiaca e ironica (quando non sarcastica) nei confronti del suo passato, verso
una cultura più ampia, cosmopolita; dall’altra, il tormento nostalgico che lo
porta ad ammantare di idillio il passato e a idealizzare il futuro,
trasformandolo, malgrado tutta la sua lucidità, in un cantore della patria
perduta.[3]
Anche il ricordo di Rizzante,
indubbiamente personale, vuole rendersi universale, anche Crnjanski, il
«cantore della patria perduta», come la sua città nella mia foto, è un uomo diviso
a metà: da un lato la meravigliosa libertà del viaggio, di avere il mondo come
casa, dall’altro il timore di non averla affatto, una casa. Di averla ormai
perduta. Il Lamento per Belgrado contrappone eppure concilia
perfettamente questi due opposti sentimenti e anch’esso, come la città, come
l’autore, è diviso a metà.
JAN
MAYEN e il mio Srem, Parigi,
i miei compagni defunti, i ciliegi in Cina, m’appaiono
di nuovo, mentre qui taccio, veglio, e muoio e
resto supino, freddo, come un ceppo nella cenere. Solo,
noi non siamo più noi, la vita, e neppure le stelle, ma
mostri, polipi, delfini, che
aleggiano su di noi, e nuotano, e cavalcano sulle onde, e
urlano: «Polvere, cenere, morte, nient’altro». E
gridano in russo: «Ničevo» – e
in spagnolo: «Nada». |
Tu,
intanto, ti ergi, con l’astro chiaro dell’aurora, con
l’azzurra Avala, in lontananza, come una collina. Tu
scintilli, anche quando qui le stelle si spengono, e
sciogli, come il Sole, il ghiaccio delle lacrime e la neve di un tempo. In
Te non esiste il non senso, né la morte. Tu
brilli come una vecchia spada dissepolta. In
Te tutto resuscita, e danza, e volteggia, e
si ripete, come il giorno e il pianto dei fanciulli. E
quando la mia voce, e i miei occhi, e il mio respiro si estingueranno, Tu
mi accoglierai, lo so, nel tuo grembo. |
Queste sono le prime due
strofe del breve testo. La prima, a sinistra, racconta i viaggi dell’autore (Jan Mayen è una
piccola isola all’estremo nord del mondo, lo Srem è la regione di nascita di
Crnjanski) alternati ai ricordi di vecchi amici e a immagini oniriche e
grottesche. La seconda strofa, a destra, ci fa percepire la nostalgia di chi scrive, la
sua speranza di rivedere, prima o poi, l’amata città di Belgrado, con la
collina di Avala sullo sfondo. Vista la differenza di contenuto, non può che
essere differente anche lo stile: la prima strofa scorre rapida, è quasi un
elenco di immagini, di pensieri e ricordi che si affacciano e si accumulano
nella mente dell’autore. La tendenza al modernismo è resa evidente dall’uso di
termini stranieri e dalla punteggiatura che diventa strumento espressivo. La
seconda strofa ci riporta agli albori della poesia e, nello specifico, della
poesia d’amore: il poeta si rivolge all’amata città con il «Tu», la
personifica. L’andamento è lento e maestoso, quasi patetico, alcune parole (le
stelle, gli occhi) e alcune situazioni (il sole che scioglie il ghiaccio delle
lacrime) portano con sé secoli di poesia, ci rimandano alla Scuola siciliana e
ai trovatori. Le dieci strofe seguenti procedono in questo schema: a sinistra
le strofe dispari, moderniste, le strofe del viaggio e della fuga, a destra le
strofe pari, tradizionali, quelle della nostalgia di casa. In questo modo Crnjanski
costruisce un testo che, meglio di qualsiasi altro, ci fa capire cosa
significhi trovarsi in esilio.
Fuga senza fine di
Joseph Roth è un libro completamente diverso, sia per genere che
per stile, dal Lamento per Belgrado. Eppure presenta lo stesso tema e,
forse, la stessa struttura di fondo. Il testo narra l’avventurosa storia
(«Storia vera», ci fa sapere Roth nell’ironico e bugiardo sottotitolo al romanzo)
di Franz Tunda, un giovane viennese di buona famiglia. Siamo nel 1916 e Franz,
ufficiale dell’esercito austro-ungarico durante la Prima guerra mondiale, dopo essere stato catturato e fatto prigioniero dei russi, riesce miracolosamente a fuggire e a
rifugiarsi in Siberia, dove vivrà per tre anni in compagnia di un cacciatore
locale. Quando ritornerà nella civiltà, Franz scoprirà che la guerra è stata
persa e che la sua patria non esiste più. Inizierà a questo punto una lunga
fuga che lo porterà a combattere (senza dei veri ideali) al fianco dei
rivoluzionari comunisti, si sposerà con Alya (senza davvero amarla) con cui
vivrà per qualche tempo a Baku, tornerà per un brevissimo periodo a Vienna,
vivrà a spese del fratello in Germania, visiterà Berlino e, seguendo le tracce
della sua antica fidanzata, una donna che forse non esiste più, arriverà fino a
Parigi. Qui, finalmente, dopo dieci anni di fuga senza fine, Franz conoscerà un
nuovo lato di sè:
Era il 27 agosto del 1926, alle
quattro del pomeriggio, i negozi erano affollati, nei magazzini le donne
facevano ressa, nelle case di moda le mannequins giravano su se stesse, nelle
pasticcerie chiacchieravano gli sfaccendati, nelle fabbriche sibilavano gli
ingranaggi, lungo le rive della Senna si spidocchiavano i mendicanti, nel Bois
de Boulogne le coppie d'innamorati si baciavano, nei giardini i bambini
andavano in giostra. A quell'ora il mio amico Franz Tunda, trentadue anni, sano
e vivace, un uomo giovane, forte, dai molti talenti, era nella piazza davanti
alla Madeleine, nel cuore della capitale del mondo e non sapeva cosa dovesse
fare. Non aveva nessuna professione, nessun amore, nessun desiderio, nessuna
speranza, nessuna ambizione e nemmeno egoismo. Superfluo come lui non c'era
nessuno al mondo.[4]
Nico
[1] C. Baudelaire, A che serve la critica? (Salon del 1846) in Scritti sull'arte, Torino, Einaudi, 1992, p. 56.
[2] M. Crnjanski, Lamento per
Belgrado, Rovigo, Il ponte del sale, 2010.
[3] A. Inglese, “Lamento per
Belgrado” di Miloš Crnjanski in Nazione Indiana (https://www.nazioneindiana.com/2010/03/26/lamento-per-belgrado-di-milos-crnjanski/), consultato il 27/10/20.
[4] J. Roth,
Fuga senza fine, Milano,
Adelphi, 2019, p. 151
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