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Il viaggio, l'esilio, la nostalgia di casa. Miloš Crnjanski e Joseph Roth

Dall’alba dei tempi alle scuole superiori si fa il tema, nobilissimo sistema per insegnare agli studenti l’arte della scrittura. Esistono vari tipi di tema: l’analisi del testo, il tema libero, il saggio breve, il saggio storico. Regole fondamentali del saggio breve? Oggettività e aderenza alle fonti. Mai usare la prima persona singolare, l’insegnante su questo è piuttosto chiaro. I nostri articoli, memori di quest’antica lezione, generalmente si attengono alle regole basilari del saggio breve. D’altro canto Baudelaire riteneva che la vera critica letteraria dovesse essere «parziale, appassionata, politica, vale a dire condotta da un punto di vista esclusivo, ma tale da aprire il più ampio degli orizzonti»[1], una critica personale insomma, ma proprio per questo universale. Detto ciò, utilizzare la prima persona singolare non è solo concesso, è utile e giustificato. E mi pare quindi altrettanto giustificato far partire la mia riflessione da un ricordo personale. Con la speranza di renderlo universale.

Un paio d’anni fa, con due amici, ho attraversato in treno vari paesi dell’est Europa, dopo varie tappe sono sceso alla stazione di Belgrado. In città ho scattato varie foto, tra le altre, questa:




Per metà bel palazzo storico, per metà orribile edificio moderno, in alto la bandiera della vecchia Jugoslavia. Questa è la foto che utilizzerei dovendo descrivere Belgrado, una città a metà. Una città in cui la storia è passata più e più volte, sottraendo ogni volta qualcosa, lasciando delle profonde cicatrici (a Belgrado, ancora oggi, è possibile vedere gli edifici devastati dai bombardamenti del 1999), ma rendendo la città diversa da qualsiasi altra, a metà tra il passato e il futuro.

Uno dei più bei testi mai scritti su questa “città a metà” è Lamento per Belgrado, di Miloš Crnjanski, un breve poema di 120 versi suddivisi in 10 strofe. Il Lamento è il testo di un esiliato: mentre scrive, nel 1956, Crnjanski si trova in Inghilterra da undici anni. E dovranno passarne altri nove prima che l’autore, nel 1965, possa ritornare a Belgrado. Nell’edizione italiana del testo[2] Massimo Rizzante, traduttore e curatore dell’opera, inizia il suo breve saggio introduttivo partendo anch’egli da un ricordo:

Ricordo di aver conosciuto a Parigi, agli inizi degli anni Novanta, molti studenti e scrittori serbi e bosniaci che, fuggiti dai loro paesi, si adattavano per sopravvivere ai lavori più bizzarri […] ho conosciuto da vicino il valore che un’opera letteraria assume quando è creata o letta in condizioni materiali di vera indigenza, diventando spesso più preziosa del pane. Ho conosciuto anche le due dimensioni dell’esilio: da una parte, lo slancio liberatore che il vivere altrove genera nell’esule, spingendolo, attraverso l’uso di una tonalità allo stesso tempo elegiaca e ironica (quando non sarcastica) nei confronti del suo passato, verso una cultura più ampia, cosmopolita; dall’altra, il tormento nostalgico che lo porta ad ammantare di idillio il passato e a idealizzare il futuro, trasformandolo, malgrado tutta la sua lucidità, in un cantore della patria perduta.[3]

Anche il ricordo di Rizzante, indubbiamente personale, vuole rendersi universale, anche Crnjanski, il «cantore della patria perduta», come la sua città nella mia foto, è un uomo diviso a metà: da un lato la meravigliosa libertà del viaggio, di avere il mondo come casa, dall’altro il timore di non averla affatto, una casa. Di averla ormai perduta. Il Lamento per Belgrado contrappone eppure concilia perfettamente questi due opposti sentimenti e anch’esso, come la città, come l’autore, è diviso a metà.




JAN MAYEN e il mio Srem,

Parigi, i miei compagni defunti, i ciliegi in Cina,

m’appaiono di nuovo, mentre qui taccio, veglio, e muoio

e resto supino, freddo, come un ceppo nella cenere.

Solo, noi non siamo più noi, la vita, e neppure le stelle,

ma mostri, polipi, delfini,

che aleggiano su di noi, e nuotano, e cavalcano sulle onde,

e urlano: «Polvere, cenere, morte, nient’altro».

E gridano in russo: «Ničevo» –

e in spagnolo: «Nada».

Tu, intanto, ti ergi, con l’astro chiaro dell’aurora,

con l’azzurra Avala, in lontananza, come una collina.

Tu scintilli, anche quando qui le stelle si spengono,

e sciogli, come il Sole, il ghiaccio delle lacrime e la neve di un tempo.

In Te non esiste il non senso, né la morte.

Tu brilli come una vecchia spada dissepolta.

In Te tutto resuscita, e danza, e volteggia,

e si ripete, come il giorno e il pianto dei fanciulli.

E quando la mia voce, e i miei occhi, e il mio respiro si estingueranno,

Tu mi accoglierai, lo so, nel tuo grembo.


 

Queste sono le prime due strofe del breve testo. La prima, a sinistra, racconta i viaggi dell’autore (Jan Mayen è una piccola isola all’estremo nord del mondo, lo Srem è la regione di nascita di Crnjanski) alternati ai ricordi di vecchi amici e a immagini oniriche e grottesche. La seconda strofa, a destra, ci fa percepire la nostalgia di chi scrive, la sua speranza di rivedere, prima o poi, l’amata città di Belgrado, con la collina di Avala sullo sfondo. Vista la differenza di contenuto, non può che essere differente anche lo stile: la prima strofa scorre rapida, è quasi un elenco di immagini, di pensieri e ricordi che si affacciano e si accumulano nella mente dell’autore. La tendenza al modernismo è resa evidente dall’uso di termini stranieri e dalla punteggiatura che diventa strumento espressivo. La seconda strofa ci riporta agli albori della poesia e, nello specifico, della poesia d’amore: il poeta si rivolge all’amata città con il «Tu», la personifica. L’andamento è lento e maestoso, quasi patetico, alcune parole (le stelle, gli occhi) e alcune situazioni (il sole che scioglie il ghiaccio delle lacrime) portano con sé secoli di poesia, ci rimandano alla Scuola siciliana e ai trovatori. Le dieci strofe seguenti procedono in questo schema: a sinistra le strofe dispari, moderniste, le strofe del viaggio e della fuga, a destra le strofe pari, tradizionali, quelle della nostalgia di casa. In questo modo Crnjanski costruisce un testo che, meglio di qualsiasi altro, ci fa capire cosa significhi trovarsi in esilio.



Fuga senza fine di Joseph Roth è un libro completamente diverso, sia per genere che per stile, dal Lamento per Belgrado. Eppure presenta lo stesso tema e, forse, la stessa struttura di fondo. Il testo narra l’avventurosa storia («Storia vera», ci fa sapere Roth nell’ironico e bugiardo sottotitolo al romanzo) di Franz Tunda, un giovane viennese di buona famiglia. Siamo nel 1916 e Franz, ufficiale dell’esercito austro-ungarico durante la Prima guerra mondiale, dopo essere stato catturato e fatto prigioniero dei russi, riesce miracolosamente a fuggire e a rifugiarsi in Siberia, dove vivrà per tre anni in compagnia di un cacciatore locale. Quando ritornerà nella civiltà, Franz scoprirà che la guerra è stata persa e che la sua patria non esiste più. Inizierà a questo punto una lunga fuga che lo porterà a combattere (senza dei veri ideali) al fianco dei rivoluzionari comunisti, si sposerà con Alya (senza davvero amarla) con cui vivrà per qualche tempo a Baku, tornerà per un brevissimo periodo a Vienna, vivrà a spese del fratello in Germania, visiterà Berlino e, seguendo le tracce della sua antica fidanzata, una donna che forse non esiste più, arriverà fino a Parigi. Qui, finalmente, dopo dieci anni di fuga senza fine, Franz conoscerà un nuovo lato di sè:

Era il 27 agosto del 1926, alle quattro del pomeriggio, i negozi erano affollati, nei magazzini le donne facevano ressa, nelle case di moda le mannequins giravano su se stesse, nelle pasticcerie chiacchieravano gli sfaccendati, nelle fabbriche sibilavano gli ingranaggi, lungo le rive della Senna si spidocchiavano i mendicanti, nel Bois de Boulogne le coppie d'innamorati si baciavano, nei giardini i bambini andavano in giostra. A quell'ora il mio amico Franz Tunda, trentadue anni, sano e vivace, un uomo giovane, forte, dai molti talenti, era nella piazza davanti alla Madeleine, nel cuore della capitale del mondo e non sapeva cosa dovesse fare. Non aveva nessuna professione, nessun amore, nessun desiderio, nessuna speranza, nessuna ambizione e nemmeno egoismo. Superfluo come lui non c'era nessuno al mondo.[4]

 Anche questo romanzo in fondo potrebbe essere impaginato come il poemetto di Crnjanski. Da un lato le parti in cui Franz “si ferma”: il Franz rivoluzionario comunista, il Franz sposato, il Franz che vive da mantenuto in casa del fratello, le parti insomma in cui il protagonista prova a dimenticare il suo passato e a ricominciare una nuova vita. Dall’altro lato le sezioni in cui Franz, novello Ulisse, sente il richiamo di casa e fugge, fugge senza meta cercando qualcosa che ormai ha smesso di esistere: la sua città, una donna che l’ha dimenticato, la sua patria ormai defunta. Franz Tunda vive la condizione dell’esule perfettamente descritta da Rizzante nell’introduzione al Lamento per Belgrado: è sospeso tra il passato e il futuro, tra il cosmopolitismo e la nostalgia di casa, è diviso a metà. Ma la situazione di Franz, come quella di molti esuli, è ben più drammatica di quella del narratore del Lamento: Crnjanski nutre la speranza di tornare, prima o poi, a casa, e in effetti ci riuscirà, passerà a Belgrado gli ultimi dodici anni della sua vita, Franz Tunda invece una casa non ce l’ha più, alle sue spalle tutto è crollato. Non è rimasto più nulla.

 

 

Nico


[1] C. Baudelaire, A che serve la critica? (Salon del 1846) in Scritti sull'arte, Torino, Einaudi, 1992, p. 56.

[2] M. Crnjanski, Lamento per Belgrado, Rovigo, Il ponte del sale, 2010.

[3] A. Inglese, “Lamento per Belgrado” di Miloš Crnjanski in Nazione Indiana (https://www.nazioneindiana.com/2010/03/26/lamento-per-belgrado-di-milos-crnjanski/), consultato il 27/10/20.

[4] J. Roth, Fuga senza fine, Milano, Adelphi, 2019, p. 151

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