Prima di cominciare con
l’articolo vero e proprio e di parlare del lavoro di Ivo Andrić
come promesso nel titolo, è necessario fare una breve premessa: quando
si ha a che fare con l’arte si ha a che fare con qualcosa di assolutamente
concreto. Spesso, soprattutto osservando il suo sviluppo nel secondo Novecento,
si rischia di dimenticare che un’opera d’arte, per essere tale, deve sempre
essere inserita nel nostro mondo e riuscire a fare i conti con la nostra realtà,
non importa se armonizzandosi ad essa o se entrandone in contrasto. La
relazione tra concretezza e arte ci è suggerita in primo luogo dalla sua etimologia
della parola: in latino il termine ars ha infatti un’accezione
assolutamente pratica e va a indicare le abilità necessarie a un artigiano per
svolgere adeguatamente un determinato mestiere. Questa definizione è in parte
ancora valida nel nostro medioevo quando nell’Italia dei comuni venivano
chiamate arti le diverse associazioni di artigiani specializzati. Negli
anni lo sviluppo della cultura europea ha rivoluzionato il concetto di arte tanto
che oggi questo termine viene utilizzato in contesti completamente differenti
rispetto a quelli del passato, facendo riferimento a dei prodotti elitari
difficilmente riconducibili alle nostre esperienze quotidiane. Il concetto che
sta alla base della nostra idea di arte resta però molto legato al fare pratico,
tanto che anche oggi si definisce artista qualcuno in grado di creare qualcosa utilizzando
la sua abilità e la sua tecnica. Il verbo creare non è stato scelto a caso: se un’idea
non riesce a concretizzarsi in qualche modo, l’opera d’arte non esiste. L’artista
per essere tale deve essere quindi capace di rendere concreto qualcosa di
astratto, portandolo nel nostro mondo e facendo sì che possa confrontarsi con
esso.
In questo blog vogliamo parlare di un’arte specifica: la letteratura. Questa disciplina però spesso viene erroneamente considerata come qualcosa di puramente astratto. La sua essenza, infatti, nonostante il medium cartaceo o digitale che ci permette di avvicinarci ad essa,[1] è immateriale: la parola. E se possiamo facilmente percepire la superficie di una statua accarezzandola o se possiamo misurare a grandi passi la larghezza della navata di una cattedrale, è sicuramente meno immediato il processo che ci permette di capire e descrivere come è fatto un testo letterario. La disciplina che studia questa branca dell’arte, la critica letteraria, si occupa anche in parte dell’analisi della forma del testo, consapevole che una maggiore consapevolezza della struttura di un’opera permette anche di comprenderne meglio il contenuto. Nello specifico sono due i grandi movimenti che per primi hanno dato importanza al modo in cui viene organizzato un testo letterario.[2]
Il formalismo: un movimento che si sviluppa in Russia tra il 1914 e il 1928-30; le posizioni teoriche dei formalisti tendono a dare valore ad un’opera letteraria come se fosse un'entità indipendente dal suo contesto storico e dalla biografia dell'autore. Ai loro occhi il valore di un testo è legato quasi esclusivamente all'organizzazione formale dello stesso.
Lo strutturalismo può essere
visto come un'evoluzione del formalismo. La sua nascita ha ragioni storiche
precise: negli anni ’20 i formalisti Mukařovsky e Jakobson devono abbandonare
per motivazioni politiche l’URSS e decidono di spostarsi a Praga. Qui
continuano le loro indagini critiche e cominciano a sistemare in maniera più
organica le loro idee precedenti. Il centro della loro indagine è sempre l’opera,
indagata nella sua struttura e nella struttura del linguaggio che la compone.
Da questa corrente si svilupperanno l’attuale linguistica e la semiotica.
Detto questo, il nostro
articolo non ha la pretesa di formulare una tesi di stampo formalista o
strutturalista. Ciò che vogliamo fare è semplicemente mettere in luce una
modalità di organizzazione del testo adottata frequentemente da uno dei più
importanti autori del Novecento europeo: Ivo Andrić (Travnik 1892 – Belgrado 1975).
Andrić ha un’idea di letteratura molto legata alla
sua funzione sociale: un’opera letteraria non deve basarsi esclusivamente sull’estetica
(che è comunque un suo elemento fondamentale), ma deve essere anche in grado di
veicolare dei contenuti storici e morali profondi. Non solo intrattenimento
quindi: l’importanza di un romanziere si basa anche sulla funzione che questo
riesce ad assumere nella sua comunità, o per dirlo con le parole dello stesso Andrić:[3]
«Il romanziere e la sua opera non servono a nessuno se, in un modo o nell’altro, non sono al servizio dell’uomo e dell’umanità. Questo è l’essenziale.»
A
ciò si deve unire una concezione della storia come di qualcosa che, seppur
decisa a livello macroscopico da grandi potenze, si ripercuote nelle vite private
dei singoli individui. Per parlare di storia non basta quindi concentrarsi sui
grandi avvenimenti, ma è necessario anche spiegare a fondo come questi vadano a
toccare la quotidianità dei piccoli individui, con la consapevolezza che la
società è la somma delle vite dei singoli individui.[4]
Compiere
un’operazione del genere in un romanzo non è sicuramente semplice, poiché richiede
che vengano messe in scena nella stessa opera le vite di moltissimi personaggi
anche molto diversi tra di loro. Il rischio è quello di comporre un’opera che
comprende troppe divagazioni e di far perdere la centralità ai protagonisti,
trasformando così un romanzo in una semplice raccolta di novelle. Per evitare
ciò Andrić utilizza spesso una tecnica narrativa che gli consente di
presentare agevolmente molti personaggi senza che si perda il filo della
narrazione e senza che venga interrotto lo svolgimento della trama. Nello
specifico Andrić inserisce i propri personaggi in spazi geografici fisicamente
delimitati e struttura il racconto in modo che il procedere della trama non possa
fare a meno di passare per questi luoghi. La vicinanza fisica tra diversi
personaggi dello stesso romanzo e la loro obbligata relazione fanno sì che la
narrazione possa procedere senza rinunciare all’unità di tempo e di luogo,
deviando l’unità d’azione solo minimamente con parentesi che si aprono e
chiudono rapidamente, permettendo così al lettore di non perdere il filo della
trama. Per comprendere meglio questa operazione, riportiamo tre esempi.
Cominciamo con l’opera più
conosciuta di Andrić: Il ponte sulla Drina (1945). La premessa per
la costruzione della trama è semplice: a venire narrati sono gli avvenimenti
che interessano la cittadina di Višegrad in un periodo di tempo che dura più di
cinque secoli. Questo enorme arco temporale non permette al romanzo di poter disporre di uno o più
personaggi fissi che possano accompagnare il lettore dall’inizio alla fine del
libro. A venire narrate sono quindi le storie di moltissimi personaggi, ma
tutti transitori: le loro vicende si protraggono spesso per la lunghezza di un solo
capitolo, quando non per sole poche pagine. Una visione plurale di questo tipo
è essenziale per l’idea che ha Andrić di letteratura poiché gli permette di rendere
partecipe della storia chiunque a prescindere della sua classe sociale, della
sua fede o da qualsiasi altra possibile discriminante. Ma un’operazione così
inclusiva non sarebbe però possibile senza l’inserimento nell’intreccio di un
elemento fisso che riesca a mediare l’alternanza delle diverse storie e che
allo stesso tempo permetta alla trama di scorrere agevolmente dall’una
all’altra senza che venga meno il suo progredire. È proprio qui che entra in
gioco il ponte: opera monumentale eretta dal leggendario memed pasha per
unire le due sponde del fiume Drina.
Andrić
è consapevole dell’importanza di un’opera del genere: il ponte infatti è l’unica
infrastruttura che permette il passaggio tra le due sponde di due mondi molto
diversi: l’occidente europeo e l’oriente ottomano. Grazie al ponte la storia
mondiale passa attraverso Višegrad e il narratore può raccontare in
che modo questa influisca sulle vite dei cittadini.
Una precisazione: il ponte è onnipresente nel romanzo ma non ne è il protagonista. La sua centralità è determinata dalla sua funzione strutturale, ma ad essere centrale nel romanzo è sempre e solamente la vita umana. È per questo che il romanzo si apre con la sua costruzione e si chiude con la sua demolizione: prima non c’è nulla da raccontare, la preistoria di Višegrad non esiste e i suoi miti sono tutti legati al ponte; dopo, caduta la via di comunicazione, la storia prende altre strade e non rimane più nulla da raccontare.
Il secondo romano di cui vogliamo parlare è La corte del diavolo (1954). Si tratta di un romanzo breve, forse meno conosciuto del precedente ma non meno meritevole di essere letto. La vicenda in esso narrata gira intorno all’incontro nell’enorme prigione di Istanbul (la cosiddetta corte del diavolo) tra un monaco bosniaco e un nobile turco. La trama in realtà ci interessa ben poco, quello che vogliamo far notare è che anche in questo caso Andrić decide di inserire i propri protagonisti all’interno di uno spazio ben delimitato, la cui ristrettezza permette ancora una volta di fare degli excursus nelle vite di personaggi minori senza perdere il filo del racconto. Nonostante la brevità di quest’opera costringa la trama a concentrarsi molto sui due protagonisti principali, il loro inserimento nella prigione della città che allora era la più grande del globo permette a Andrić di parlare nel giro di poche pagine di personaggi provenienti dalle parti del mondo più disparate, riuscendo così a fornire al lettore una panoramica di molte delle culture che componevano il tessuto sociale dell’Impero ottomano.
L'ultimo romanzo di cui vogliamo parlare è La vita di Isidor Katanić (1948). Si tratta in realtà di un racconto lungo, uno dei meno fortunati di Ivo Andrić. Come si può intuire dal titolo (che in serbo è semplicemente Zeko, sempre il nome del protagonista), quest'opera non ha l'ambizione delle precedenti di esplorare la vita di molti personaggi. Nondimeno Andrić inserisce in alcuni capitoli uno spazio fisicamente limitato simile a quelli già visti negli altri romanzi con lo scopo di inserire in poche pagine le vicende personali di molte persone. Questo spazio è il tratto del fiume Sava che circonda Belgrado prima di confluire nel Danubio. Sulle sue sponde si ritrovano tutte quelle persone che ci vivono, magari su di una barca, o che passano i pomeriggi a pescare lontane dal centro città, come nel caso del protagonista. La loro vicinanza fisica e il girovagare di Isidor katanić lungo il fiume permettono ad Andrić di descriverle e di parlare di loro senza perdere di vista la trama. Il modo in cui ciò avviene è sempre lo stesso: il protagonista incontra qualcuno, il narratore spiega il rapporto che intercorre tra i due, viene approfondita la storia del personaggio transitorio e infine l'attenzione ritorna nuovamente sul protagonista, che nel giro di pochi metri non può non imbattersi in un nuovo personaggio. Il gruppo di pescatori sul Sava è inoltre un esempio di un insieme culturalmente eterogeneo: a comporlo è gente proveniente da tutte le regioni dell'ex Jugoslavia, attratte dalle possibilità economiche offerte dalla capitale.
Matteo
Bibliografia romanzi di Ivo Andrić consultati:
- Il ponte sulla Drina, Mondadori, Milano, 2016
- La corte del diavolo, Adelphi, Milano, 1992
- La vita di isidor Katanić, Bottega Errante Edizioni, Udine, 2020
[1] Il medium orale, esistito per secoli, non fa più parte della cultura occidentale salvo alcuni esempi isolati
[2] Alberto Casadei, "La
critica letteraria contemporanea", Il Mulino, Bologna, 2015
[3] Diego Zandel, Giacomo Scotti, "Invito alla lettura di
[4] Ivi
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