L’aspetto più significativo del romanzo di Crnjanski sta nella coerenza del suo titolo: Migrazioni. La grande saga della famiglia degli Isakovič è infatti incentrata sulla ricerca di una terra promessa in cui stabilirsi per mettere fine alle sofferenze tipiche di chi, privo di una patria in cui riconoscere le proprie radici, non conosce la propria posizione nel mondo, e di conseguenza non conosce se stesso. Queste migrazioni però non sono solamente fisiche ma soprattutto interiori. Nel testo i pensieri dei protagonisti si muovono insieme a loro ed è possibile tracciare la loro evoluzione, fatta di cambiamenti minimi dettati dai fatti che interessano la trama. Lungo questi continui spostamenti rimangono però dei punti fissi, delle fissazioni su cui i protagonisti sono costretti a tornare come per una legge di natura. Per questo motivo il testo continua in incessanti riflessioni su alcuni argomenti chiave per i suoi protagonisti, come la guerra austro-turca del 1714-1716, le promesse fatte ai serbi dalla monarchia austriaca e mai mantenute, o ancora la speranza di ottenere una patria offerta dalla migrazione. Tra le necessità del momento e questioni più importanti da sbrigare, il loro pensiero ritorna sempre su questi chiodi fissi, inevitabilmente. Gli Isakovič vagano perennemente sotto un cielo che non riconoscono, tra gente che non comprende le loro fissazioni.
In maniera analoga, ma ovviamente
molto più modesta, anche io nel mio piccolo sono destinato a tornare sulle mie
fissazioni. È principalmente questo il motivo che mi spinge a scrivere
nuovamente poche preziose righe su quel poeta che è stato Ivo Andrić (1892 -
1975).
Abbiamo già parlato di Andrić in passato: abbiamo descritto brevemente la sua opera principale, Il ponte sulla Drina (1945), e abbiamo osservato attraverso quale specifica struttura testuale riesca nella sua prosa a narrare di personaggi e avvenimenti differenti senza spezzare l’unità d’azione del racconto.[1] In queste poche righe, torneremo nuovamente su Il ponte sulla Drina, non perché crediamo di poter riuscire in questo modo a esaurire ogni argomento al riguardo, ma semplicemente per mettere in evidenza un'altra minima parte della sua struttura.
Il ponte sulla Drina narra
le vicende che avvengono nella cittadina bosniaca di Višegrad in un periodo che va
dalla costruzione del suo celebre ponte fino allo scoppio della Prima guerra
mondiale. Durante questo lasso temporale, che copre quasi quattrocento anni di
storia, due diversi imperi esercitano il loro controllo sulla Bosnia: quello ottomano,
a partire dalla metà del XV secolo, e quello asburgico, che si assicura de
facto il controllo di queste terre solamente nel 1878, cioè nemmeno mezzo
secolo prima dell’inizio della Grande Guerra. La sproporzione temporale tra i
due diversi periodi di occupazione è evidente, tuttavia Andrić decide di
costruire il suo romanzo in modo tale che questi coprano più o meno lo stesso
numero di pagine. Infatti, dopo un primo capitolo che fa da cornice
introduttiva a tutta la narrazione, il materiale narrativo de Il ponte sulla
Drina viene diviso implicitamente in due macro-epoche storiche: una prima
leggendaria e strettamente legata alla cultura orientale, che copre quasi metà
del testo, e una seconda moderna e legata a una visione di progresso tipica
delle civiltà occidentali.
Così, prima e dopo la fatidica
data del 1878, vengono messi in scena pressappoco lo stesso numero di eventi.
Ciò naturalmente ha delle conseguenze significative sulla costruzione dell’opera.
In primo luogo, durante la lettura si ha come l’impressione che l’andamento del
testo si faccia sempre più lento, cioè che man mano che si sviluppa la trama
gli anni passino sempre più lentamente. E in effetti è così: se inizialmente a
segnare l’inizio di ogni capitolo è una nota cronologica, spesso vaga, che retrodata
anche di decenni ciò che è stato narrato solamente poche pagine prima,
successivamente il tempo rallenta tanto che nei capitoli finali gli eventi si susseguono
in totale continuità narrativa. In questo modo, un minor numero di anni copre un
sempre maggiore numero di pagine, sospendendo in maniera indefinita il momento
della conclusione.
Ecco, per esempio, come viene introdotto
il capitolo V, che narra di fatti inclusi ancora nella prima delle due epoche:[2]
«Passò un secolo, un periodo di
tempo lungo e fatidico per gli uomini e molte delle loro opere, ma pressoché
impercettibile per le grandi costruzioni ben ideate e solidamente fondate, e il
ponte con la sua kapija e il caravanserraglio vicino mantenevano la loro linea
armoniosa come il primo giorno. Così su di loro avrebbe potuto passare un secondo
secolo, con l’alternarsi delle stagioni e delle generazioni, senza che
subissero la minima trasformazione.»
Come si può forse intuire già da
queste poche righe, l’epoca turca è per Andrić l’epoca del mito. È infatti perfettamente
consapevole che come scrittore il suo compito è quello di raccontare qualcosa
che non esiste più, ma che ha lasciato una traccia indelebile nella cultura
degli abitanti di Višegrad. E ciò che rimane sono da un lato le opere dell’uomo,
dall’altro le leggende che intorno a esse si costruiscono. Non è quindi un caso
che questa prima parte del romanzo venga dedicata non solo al racconto della
costruzione del ponte, e degli altri edifici monumentari ad esso collegati, ma
soprattutto alla ricostruzione storica di alcune leggende ancora in
circolazione quando Andrić scrisse il libro nel 1945. Queste leggende sono
essenziali: appaiono già nel primo capitolo, una dopo l’altra, in maniera
apparentemente casuale mentre vengono introdotti gli ambienti della narrazione,
e successivamente vengono reintrodotte e spiegate, seguendo la trafila che ha
portato degli eventi comuni a diventare leggendari. Ma è proprio perché si
vuole narrare di un’epoca leggendaria che l’andamento del testo si basa su
periodi molto distanti. Una semplice storia, affinché possa diventare un mito,
ha bisogno di essere ripetuta nel tempo dal susseguirsi delle generazioni. Solo
in questo modo il sostrato umano che le appartiene può venire via via rielaborato,
perdendo anche le sue componenti più razionali, diventando però immortale. O
per dirlo con le parole di Andrić: [3]
«Il popolo ha scarsa memoria e
tramanda solo quello che riesce a capire e a trasformare in leggenda. Tutto il
resto gli passa accanto senza lasciare tracce profonde, con la muta indifferenza
degli anonimi fenomeni naturali, senza colpire la sua fantasia e restare nel
ricordo.»
La forma del testo cambia con l’arrivo
della monarchia asburgica in Bosnia. Il nuovo paese occidentale si ritrova a
dover governare su di un popolo con una tradizione che è ben definita, nonostante
il notevole numero di culture e confessioni religiose dei suoi abitanti. Di
conseguenza in questa seconda parte di romanzo Andrić non ha più bisogno di
lavorare su tempi lunghi e può concentrarsi su un numero di eventi maggiore
sviluppato in un lasso temporale più ristretto. Di conseguenza, diversamente da
quanto detto prima, è possibile che tra un capitolo e l’altro non sussista
nessun avanzamento temporale. Prendiamo per esempio il passaggio tra i capitoli
XIX e XX:[4]
Cap. XIX
«Allora il giovane si stacca
con difficoltà dal parapetto e, dopo aver gettato ancora uno sguardo alla
finestra illuminata dell’albergo, ultima luce della kasaba ormai addormentata,
si avvia lentamente verso la sua povera casa, lassù a Mejdan.»
Cap. XX
«L’unica finestra ancora illuminata
dell’albergo, ultimo segno di vita della cittadina immersa nelle tenebre,
appartiene alla piccola stanza di Lotika, al primo piano.»
Questa tentata resistenza alle
influenze straniere è possibile solo grazie alla forte identità culturale di
cui Andrić è stato un attento narratore nella prima parte del romanzo. Infatti,
è ormai impossibile cancellare le tracce di una tradizione così ben radicata, e
se da un lato la reazione al cambiamento impedisce la nascita di nuovi miti locali,
dall’altro favorisce la riscoperta di quelli antichi. Dunque, questa seconda
parte è segnata da un tratto distintivo: il riemergere delle storie raccontate
in precedenza, questa volta definitivamente sotto forma di mito.
Ne è un chiaro esempio la
leggenda di Fata: una ragazza morta suicida il giorno stesso del matrimonio,
prima di essere condotta sull’altare. La leggenda della sua bellezza e della
sua saggezza però la resero immortale.[5]
«Rimase solo la canzone sulla ragazza
che, per bellezza e saggezza, emergeva su tutte come fosse immortale.»
La sua memoria è ancora presente verso
la fine del libro quando i ragazzi, che appartengono alla stessa generazione di
Andric, cantano ancora sul ponte:[6]
«Saggia
sei, bella sei
Bella Fata
di Avdaga!»

Come già detto, con l’affermarsi
del dominio asburgico si modifica anche il modo di intendere la storia e il suo
corso. A partire dalla seconda metà del XIX secolo il pensiero occidentale inizia
a prendere le distanze dell’antico modo di intendere la storia come un ciclo immutabile
di eventi destinati a ripetersi nel corso degli anni. Il modello che gli si sostituisce
è quello della filosofia del progresso. Questo, favorito dal miglioramento
della tecnica e dal benessere economico, prevede uno sforzo continuo a favore
dell’avanzamento del livello di civiltà che procede per tappe sempre più
ravvicinate, in maniera ossessiva. Andric si accorge di questa differenza e la
descrive chiaramente. Infatti, nella prima parte del romanzo il tempo viene
descritto in questo modo:[7]
«Analizzato con gli occhi dei
contemporanei, quel periodo poteva sembrare relativamente calmo e felice […].
Solo che tutto avveniva in modo lento, graduale, con brevi sussulti tra lunghi intervalli
di tranquillità.»
Nella seconda parte, invece, la
mania del progresso si impone sul modello di vita precedente tanto da riuscire
a imporsi sugli stessi abitanti.[8]
«In compenso l’aspetto esteriore della
Kasaba cambiava rapidamente e visibilmente. E la stessa gente che, nelle
proprie case, manteneva il vecchio ordine e non pensava di mutarlo, si adeguava
facilmente ai mutamenti nella città finendo, dopo un periodo più o meno lungo
di stupore e diffidenza, per accettarli. […] Come per una legge naturale la
gente resisteva alle novità, ma non spingeva la propria resistenza fino in
fondo, perché la maggioranza considerava la vita in sé più importante della forma
in cui veniva vissuta.»
Di fronte a questo pericolo si
potrebbe pensare alla scrittura de Il ponte sulla Drina come un atto
estremo, volto alla disperata speranza di evitare che una civiltà rimasta priva
di radici possa disperdersi nella storia: con la sua penna Andrić ha reso nuovamente
indelebile ciò che sentiva minacciato dell’oblio della modernità.
Matteo
[1] Qui gli articoli:
https://lafestadellinsignificanza.blogspot.com/2020/10/organizzare-un-testo-letterario.html
[2] Il ponte sulla Drina, Ivo
[3] Ivi, p.23
[4] Ivi, pp. 351-352
[5] Ivi, p.143
[6] Ivi, p.347
[7] Ivi, p.117
[8] Ivi, p.178
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